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La nube purpurea
A gennaio 2019 esce in Urania Collezione n. 192 la nuova traduzione di un grande classico della fantascienza, “La Nube Purpurea” di Matthew Phipps Shiel. Abbiamo incontrato Davide De Boni, che ha curato questa versione del testo.
Ciao Davide, innanzitutto una domanda introduttiva: perché tradurre di nuovo “La nube purpurea”? E come ti sei confrontato con la precedente traduzione di J. Rodolfo Wilcock?
Ciao, Redazione. L’esigenza di proporre una nuova traduzione è nata dal fatto che la versione di Wilcock risale al 1967, e da allora non ha subito alcun aggiornamento: di qui la necessità di “svecchiarla” per renderla più compatibile con i lettori d’oggi. Oltretutto, trattandosi di una traduzione d’autore, Wilcock si era concesso alcune libertà stilistiche, che in parte si discostavano dal testo originale di Shiel. Con questa nuova traduzione, perciò, ho cercato di riavvicinarmi allo stile originario del romanzo, recuperandone la suggestività e le atmosfere più autentiche. Chi ha letto la traduzione precedente scoprirà per la prima volta anche alcuni brani che erano stati omessi nelle edizioni passate.
Il romanzo di Matthew Phipps Shiel risale all’inizio del secolo scorso (1901). Ha ancora qualcosa da dire al pubblico del XXI secolo?
Assolutamente sì: a dispetto della veneranda età, questo romanzo è straordinariamente attuale, sia per i temi che per le modalità con cui li affronta. Shiel ci accompagna in un viaggio nei meandri dell’animo umano, esplorando il peso della solitudine, i mali di una società votata al consumo e all’indifferenza, l’incapacità dell’uomo di imparare dai propri errori, ma anche la bellezza e l’ingenuità che si celano in ciascuno di noi, l’ambizione che nonostante tutto ci guida, e il destino comune che lega ogni individuo in questo mondo e livella qualsiasi disuguaglianza. In questo senso, cento e passa anni sulle spalle non impediscono a La nube purpurea di avere ancora molto da insegnarci
In ricordo di Giuseppe Lippi
Giuseppe Lippi (Stella Cilento, 3 luglio 1953 – Pavia, 15 dicembre 2018), curatore di Urania dal 1990 al 2018.
Ci ha lasciati la scorsa notte Giuseppe Lippi, nostro storico curatore fin dal 1990. 65 anni di età, di cui 28 dedicati anima e corpo a Urania.
Giuseppe era una persona poliedrica, oltre che redattore è stato autore, giornalista, saggista e traduttore. Andava particolarmente fiero di aver realizzato l’edizione di tutti i racconti di H. P. Lovecraft, usciti in quattro volumi tra il 1989 e il 1992 sugli Oscar Mondadori.
Ha collaborato anche con la rivista Robot dell’editrice Armenia, con Mursia, Arnoldo Mondadori Editore, Delos Books, Bonelli e molti altri.
Giuseppe ha fatto moltissimo per la fantascienza italiana, per esempio sostenendo e facendo crescere il Premio Urania, introdotto un anno prima del suo sbarco sul pianeta omonimo.
La malattia lo accompagnava ormai da vari anni ed era in ospedale da un paio di settimane.
Come scrisse Giuseppe stesso su Urania Millemondi n. 3 (ne L’uomo senza qualità): «L’esistenza è un affar pieno di senza, / Di rinunce, d’affanno e d’astinenza, / Ma io dico al lettor che ha sapienza / Quest’adagio ripeti: Pazienza e Fantascienza.»
Addio, Giuseppe, e grazie di tutto. A rivederci su un altro pianeta, su un altro piano di esistenza o, come sempre, nei nostri sogni che ci portano oltre il tempo e lo spazio, nel regno della Fanta(scienza)sia.
Il ricordo di Franco Forte
«Ho incontrato Giuseppe diverse volte nella mia vita. La prima è stata più di trent’anni fa, in un ospedale, quando io portavo mio fratello per delle cure per una malattia che lo aveva colpito, e lui era uno degli altri pazienti, affetto dallo stesso male di mio fratello. In quelle occasioni si parlava poco, i pensieri erano tutti per il travaglio che stavamo vivendo. Mio fratello non ce l’ha fatta, mentre Giuseppe sì, per fortuna. La seconda volta in cui ho allacciato relazioni profonde con Giuseppe è stato quando, verso la metà degli anni ’90, mi ha chiesto di scrivere degli articoli da mettere in appendice a Urania (curavo una rubrica chiamata “Cyberscopio”), di preparare le introduzioni a diversi libri e persino curare con lui una antologia tutta italiana, un Millemondi che uscì con il titolo Strani giorni. E infine, la terza tappa di questi incroci è avvenuta quando, nel 2011, sono diventato editor di Urania, di cui lui era curatore. Un’avventura intensa e piena di alti e bassi (Giuseppe non era certo una persona facile con cui rapportarsi, in certe situazioni professionali), che però mi ha insegnato molto. Immagino che ci sarà una quarta tappa, un incontro da qualche parte quando anche per me arriverà il momento di dire stop. Dove e quando non lo so, ma mi auguro di ritrovare un po’ di serenità nello sguardo di Giuseppe. E nel mio.»
Se volete, lasciate anche voi il vostro ricordo di Giuseppe Lippi nei commenti.
Il funerale si terrà a Pavia lunedì 17 dicembre alle ore 15.
http://blog.librimondadori.it/blogs/urania/2018/12/15/in-ricordo-di-giuseppe-lippi/
Parassiti della mente
Certo non si tratterà di forze aliene desiderose d’invadere la nostra realtà: ma dopotutto, cosa sono dei semplici parassiti psichici in confronto degli agenti del pensiero unico globale? Un mondo massificato e massificante, in cui l’uomo è un atomo di desolazione, con un Grande Fratello sempre in agguato come nell’incubo letterario di Orwell?
In vista di ciò I parassiti della mente, romanzo visionario dal soma paranoide, ci appare quanto mai attuale. Infatti, a ben vedere, in esso è contenuto un monito di grande potenza che vuole, oggi a distanza di tanti anni, metterci in guardia dai pericoli insiti nell’assopimento mentale di chi s’affida senza riserve al politicamente corretto, al buonismo imperante, al materialismo, all’opinione generale acritica. In altre parole a tutto ciò che rappresenta un plastificato surrogato della riflessione personale, dell’idea, di quell’esperimento divino che i filosofi d’ogni epoca hanno chiamato pensiero. Anche in questo risiede la bravura di Colin Wilson: nella sua personale visione del mondo e del suo futuro, nell’implacabile discernimento di quanto ci può attendere dietro l’angolo della storia. Egli, in un certo senso, sembra affidare a questo suo romanzo, nella stessa disposizione d’animo d’un naufrago che getta tra le onde la fatidica bottiglia, un’alta esortazione che è anche grido d’allarme: “Svegliatevi, poiché il sonno dello spirito è peggior cosa della morte!”
*”I parassiti della mente”, di Colin Wilson, Urania Collezione (2017), pag. 252
Non solo nuovi
Come c’è lo scienziato pazzo, così ci sono il politico e il sociologo pazzi. Come allo scienziato piace “giocare con l’atomo”, così ai sociologi e politici piace “giocare con la società”. Quale dei due giochi è più pericoloso? Questa antologia non pretende di rispondere all’interrogativo, ma cerca solo di suggerire una certa prudenza quando, per esempio, il Sociologo-Capo ci porta a “far visita alla Mamma”, o quando ci decantano i benefici di certe operazioni nel quadro di una società “pianificata”. Nell’ultimo dei sei racconti, d’altra parte, si dimostra come anche in questi “giochi di società” si possa fare il doppio gioco.
Titolo: Giochi di società | Antologia di racconti | Urania n°555 (13 Dicembre 1970) | Copertina di Karel Thole | Autori e titoli: Jack Williamson (Visita alla mamma, Jamboree, 1969), Norman Spinrad (Test per uno, Dead end, 1969 e Test per due, Heroes die but once, 1969), Miriam Allen De Ford (Crio-UFO, The crib circuit, 1969), Hoke Norris (Trapianto, The patient, 1969), Robin Scott, (Diaspora, Diaspora, 1979).
Urania nostalgia: una breve antologia (6 racconti) dedicata allo sviluppo futuro della società; tema tipico della fs, soprattutto in quella fine anni ’60. Non sembra essere la traduzione di un’antologia nata come tale: i racconti sono sì tutti del ’69, ma i diritti d’autore dei racconti fanno capo a due diversi editori.
Volumetti come questo sono i mattoni con cui Urania costruiva lo zoccolo duro della fantascienza popolare di allora: una rutilante e insolita copertina di Thole (uno dei motivi di attrazione), una manciata i racconti in media di buona qualità e decorosamente tradotti (scappa solo un “poema di Baudelaire”), un prezzo popolare (£300 quando un libro di poesie di Sinisgalli pubblicizzato all’interno ne costava 1’600, il volume di Meridiani dedicato a Kafka 6’000); le pubblicità di “Arianna” (?) e “Duepiù, la rivista per la coppia”, con tanto di inserto chiuso e inchiesta “Le donne si lamentano per l’eccessiva frequenza dei rapporti coniugali”.. per finire, le strisce di B.C. e del mago Wiz.
L’intramontabile Jack Williamson in Visita alla mamma (Jamboree) ci dà un efficace racconto di umanità futura ridotta allo stato di infanzia da macchine che se ne prendono cura, un po’ come nella “Fuga di Logan” uscito due anni prima. È il racconto che ha ispirato la copertina; il traduttore ha forse un po’ perso di vista la terminologia scout che fin dal titolo dà forma al racconto (i “cuccioli”, come vengono continuamente definiti i ragazzi più giovani, sono probabilmente i nostri “lupetti”, “cubs”).
Due racconti di Norman Spinrad, e sono uno dei motivi per cui ho comprato questo Urania: intensi e spietati come ci si può aspettare da questo autore. Test per uno (Dead end) è perfettamente a tema con l’antologia, e di angosciante attualità anche oggi quando più che mai si parla di “fine del lavoro” e reddito minimo; Test per due (Heroes die but once) è piuttosto un drammatico “primo contatto” con una civiltà aliena, da cui una coppia di sposini uscirà intatta nel fisico ma orwellianamente distrutta nei sentimenti.
Miriam Allen DeFord, in Crio-UFO (The Crib circuit), sottolinea un problema solitamente trascurato nel campo dell’ibernazione: anche ammesso che la tecnologia per ibernarci funzioni, che le cure per la nostra malattia incurabile vengano trovate, e che la civiltà perduri abbastanza a lungo.. siamo sicuri che saremo ospiti graditi?
Altro dilemma medico, etico e filosofico molto attuale, quello del trapianto di cervello: Hoke Norris ce ne dà in Trapianto (The patient) una descrizione molto concreta ed empatica, ben lontana dall’incubo psichiatrico che ne farebbe un Ballard, ma calato nella realtà quotidiana.
Dulcis in fundo, l’unico racconto ispirato a un po’ di ottimismo: Diaspora (Diaspora) di Robin Scott. Siamo nella classica situazione di colonizzazione di un altro mondo da parte di un manipolo di elementi scelti: saranno gli unici superstiti della specie umana. Uno tra loro però non sembra per niente “scelto”: un mediocre maneggione fumatore e ubriacone, anche se affettuoso padre di famiglia, continuamente castigato dall’élite puritana della spedizione (non è per niente è un italoamericano: tal Angelo Di Filippo).. come possono aver sbagliato così i selezionatori? O forse un individuo così può avere un’importanza impensata?
Antonio Ippolito
Racconti d’annata
Crediamo di far cosa gradita ai lettori presentando qui, una accanto all’altra, due diverse facce della fantascienza: i quattro racconti di Arthur Clarke, tutti recentissimi, confermano ancora una volta la sua vena di lucido e drammatico cronista di avventure spaziali; mentre Ballard, l’astro nascente della F.S. inglese, ci propone quattro gelidi e indimenticabili tipi di follie, da quella privata di un uomo che diventa pazzo, a quella collettiva, dove a impazzire è tutta la società.
Titolo: Otto racconti | Autori: A. C. Clarke, J. G. Ballard | Edizione: Urania n. 321 del 17/11/1963 | Copertina di Karel Thole | Antologia di racconti
Presumo sia stato il curatore della collana Carlo Fruttero (che verrà raggiunto l’anno seguente dal sodale Franco Lucentini) a scrivere la presentazione di questo venerando Urania n. 321, uscito (solo in edicola in edicola, ovviamente) il 17 novembre del 1963: “Crediamo di far cosa gradita ai lettori presentando qui, una accanto all’altra, due diverse facce della fantascienza“, ovvero quattro racconti di Arthur C. Clarke, “lucido e drammatico cronista di avventure spaziali“, e altri quattro di James G. Ballard, “l’astro nascente della F.S. inglese“. La proposta di Urania in effetti risulta graditissima.
I racconti, secondo l’ordine sequenziale del volume, sono:
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PRIMA DELL’EDEN (Before Eden) di A. C. Clarke
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PER PICCINA CHE TU SIA (Billenium) di J. G. Ballard
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ESTATE SU ICARO (Summertime on Icarus) di A. C. Clarke
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DALLA VERANDA (Overloaded man) di J. G. Ballard
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GLI ANELLI DI SATURNO (Saturn rising) di A. C. Clarke
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L’ULTIMA POZZANGHERA (Deep end) di J. G. Ballard
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SEGUENDO LA COMETA (Into the comet) di A. C. Clarke
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CRONOPOLI (Chronopolis) di J. G. Ballard
Si alternano e confrontano, dunque, le novelle di Clarke, il cantore per antonomasia delle esplorazioni spaziali (dello ‘spazio esteriore’), e quelle di Ballard, l’avanguardistico provocatore che solo l’anno precedente sulla rivista inglese New World aveva indicato la via dello ‘spazio interiore’.
“Penso che la SF debba volgere le spalle allo spazio, ai viaggi interstellari, alle forme di vita extraterrestre“, scriveva Ballard (tratto da qui) nel celebre articolo Qual è la strada per lo spazio interiore, un manifesto della New Wave fantascientifica e soprattutto della sua poetica; “è lo spazio interiore, non quello esterno, che dobbiamo esplorare. L’unico pianeta veramente alieno è la Terra. In passato la SF ha propenso verso le scienze fisiche – astronautica, elettronica, cibernetica – ma l’enfasi dovrebbe slittare verso le scienze biologiche, soprattutto sulle loro manipolazioni narrative e creative, implicite nel termine science fiction”. Insomma, una rivoluzione copernicana, o quasi, dei temi fantascientifici lanciata con sfrontatezza e lucidità a smuovere le acque di un lago che rischiava di divenire uno stagno.
Sempre il curatore di Urania scrive che Ballard “ci propone quattro gelidi e indimenticabili tipi di follie“. I quattro racconti dell’autore più giovane, infatti, declinano sotto diversi aspetti la discesa nell’insania mentale e nella perdita di addentellati con la realtà. Destrutturazioni mentali, invalidamento della percezione individuale, narrate da un punto di vista quanto mai oggettivo, talvolta assimilabile a quello di relazioni scientifiche. (Ballard anni dopo chiarirà, nella postfazione di Crash: “Io sento che il ruolo dello scrittore, ossia la sua autorità e la sua legittimazione a creare, è radicalmente cambiato. Sento che, in certo qual modo, lo scrittore non sa più nulla. Lo scrittore non ha più una posizione morale: offre al lettore i contenuti del proprio cervello, sotto forma di una serie di possibilità di alternative fantastiche. Il suo ruolo è quello dello scienziato che, in safari o in laboratorio, si trovi davanti a un territorio o argomento del tutto sconosciuto. In tale situazione, tutto ciò che può fare è concepire ipotesi e verificarle alla luce dei fatti“.) Quattro storie comunque saldamente ancorate alla crosta del pianeta Terra. Che esorbitano, semmai, dalle tematiche tradizionalmente fantascientifiche. Quello che d’altronde Ballard si era prefisso.
La fantascienza che Clarke offre coi suoi quattro splendidi racconti è del genere più tradizionale, senz’altro volta allo spazio esteriore: uomini che intraprendono azioni rischiose, dediti al progresso dell’umanità e della scienza. Però attenzione: limitarsi ad evidenziare che i quattro racconti di Clarke sono dei piccoli gioielli, appassionanti e scritti col consueto stile chiaro e scorrevole non dice tutto. La limpida prosa di Clarke è illuminata dal suo intelletto di scienziato e mira, riuscendoci, a rendere plausibile lo scenario e le imprese che ci racconta (non va dimenticato che la nozione stessa di fantascienza hard deriva principalmente dalle opere dell’autore inglese). Eppure in quegli sguardi di uomini che scrutano l’infinito, uomini di scienza e di avventura al cospetto del cosmo, si può scorgere una sorta di poesia. Uomini che dispongono della tecnologia più avanzata e dello strumento più indispensabile, la propria intelligenza, ma pur sempre uomini, minuscoli rispetto all’immensità del cosmo, e talvolta soli. Umanità distillata, allo stato più puro.
Un tratto peculiare di Clarke, che nella asettica prosa di Ballard – almeno in questo caso – è programmaticamente assente.
Trovo dunque riuscitissimo, per la qualità dei racconti e l’idea in sé, l’abbinamento proposto da questo Urania d’antan di due autori che fondano entrambi la propria prospettiva sulla ratio espressa principalmente dalla cultura occidentale, Clarke in senso positivista, guardando al futuro con ottimismo, Ballard invece più scettico, celebrando “la perdita più atroce del secolo: la morte del sentimento“.
Mirco Rosga Cucchi
GLI AUTORI
Sir Arthur Charles Clarke (Minehead, 16 dicembre 1917 – Colombo, 19 marzo 2008) è stato un autore di fantascienza e inventore britannico. Clarke è ai più noto per il suo romanzo 2001: Odissea nello spazio del 1968, cresciuto assieme alla sceneggiatura del film omonimo realizzato con ilregista Stanley Kubrick ed ispirato al racconto breve La sentinella dello stesso Clarke. Lo scrittore ha però al suo attivo una produzione letteraria assai estesa, tra cui la celebre serie di Rama. È considerato un autore di fantascienza hard o “classica”, dato che una caratteristica saliente dei suoi romanzi è l’attenzione per la verosimiglianza scientifica. In suo onore l’orbita geostazionaria della Terra è stata chiamata “Fascia di Clarke”. Egli infatti fu il primo ad ipotizzare, in un articolo pubblicato nel 1945, l’utilizzo dell’orbita geostazionaria per i satelliti dedicati alle telecomunicazioni.
James Graham Ballard (Shanghai, 15 novembre 1930 – Shepperton, 19 aprile 2009) è stato uno scrittore britannico, autore di romanzi e racconti di fantascienza, autobiografici e di satira sociale. Fortemente ispirato dalla pittura surrealista, Ballard è prossimo agli autori postmodernisti. Nato a Shanghai da genitori britannici ivi residenti per motivi di lavoro, durante la seconda guerra mondiale Ballard fu internato con la famiglia nel campo di prigionia giapponese di Lunghua. Questa esperienza fu ripresa nel suo romanzo L’impero del sole (Empire of the Sun), da cui il regista Steven Spielberg nel 1987 trasse un film omonimo ( sceneggiatura del drammaturgo inglese Tom Stoppard). Dopo la fine della guerra, nel 1946, Ballard si trasferì in Gran Bretagna, iniziando gli studi di medicina al King’s College di Cambridge (con l’intento di diventare psichiatra), ma dopo due anni, folgorato dalla lettura dell’Ulisse di James Joyce, decise di abbandonare, capendo che la professione medica non gli avrebbe lasciato abbastanza tempo per scrivere. Dopo una serie di lavori occasionali – autore di testi pubblicitari, portiere a Covent Garden, ecc. – si spostò in Canada con la Royal Air Force, e là scoprì la fantascienza. Congedatosi dalla RAF e tornato in patria, Ballard trovò lavoro come giornalista scientifico e iniziò a scrivere racconti: il primo ad essere pubblicato fu Prima Belladonna, del 1956, che uscì a dicembre sulla rivista Science Fantasy, seguito a pochi giorni di distanza da Escapement su New Worlds. La sua prosa e i suoi temi ebbero un influsso notevole sulla fantascienza degli anni sessanta e settanta e anche sul movimento cyberpunk degli anni ottanta. Il suo articolo Come si arriva allo spazio interiore(Which Way to Inner Space), apparso sulla rivista New Worlds nel1962, segnò la nascita della New Wave britannica. Ballard spostò l’attenzione dallo spazio extraterrestre allo spazio interiore (inner space), luogo di incontro tra le pulsioni della psicheumana e le immagini e i simboli veicolati dai mass media. Il primo romanzo pubblicato da Ballard fu Il vento dal nulla(The Wind From Nowhere) del 1962, che aprì una tetralogia di genere catastrofico (anche se in seguito Ballard lo rinnegò, fu questo libro a dargli la possibilità di guadagnarsi da vivere come scrittore). Gli altri tre romanzi furono Il mondo sommerso (The Drowned World), Terra bruciata(The Burning World) eForesta di cristallo (The Crystal World), basati sui quattro elementi aristotelici aria, acqua, terra e fuoco, più un quinto elemento, il tempo, che domina Foresta di cristallo. Nel 1970, dopo diverse peripezie legali (fece chiudere una piccola casa editrice di lestofanti che aveva stampato alcune copie del libro) pubblicò La mostra delle atrocità (The Atrocity Exhibition), forse il suo capolavoro. È un libro composto da quindici racconti, in cui il filo comune (oltre al protagonista) è costituito dall’ossessione maniacale per la guerra del Vietnam, lapsicopatologia, la pornografia, il potere dei media, le vittime di incidenti stradali e le icone del sogno americano, queste ultime tutte rigorosamente morte. Nel libro Ballard previde l’elezione a presidente degli USA di Ronald Reagan, 11 anni prima che accadesse realmente. Tre anni dopo uscì Crash, romanzo in cui viene ripreso (in dosi molto più massicce rispetto al precedente) il tema della perversione per le vittime di incidenti stradali e la fusione di carne e auto. Nel 1996 David Cronenberg ne trasse un film omonimo. La fama al di fuori del ristretto ambito della fantascienza gli giunse col romanzo autobiografico L’impero del sole. Da allora (prima metà degli anni ottanta) Ballard si allontanò sempre più dalla fantascienza per quel che riguarda la sua produzione romanzesca, pur continuando a scrivere racconti fantascientifici o fantastici fino alla metà degli anni novanta. L’ultimo romanzo di Ballard,Regno a venire (Kingdom Come), pubblicato in Gran Bretagna nel 2006, comprende pezzi di ironica critica sociale strutturati per lo più come gialli, i cui temi sono il consumismo, la società tardo capitalistica, i rigurgiti reazionari e irrazionali delle società occidentali, i mass media. Nell’autobiografia I miracoli della vita (Miracles of Life), pubblicata nel marzo del 2008, l’autore rivelava di essere affetto da cancro alla prostata, che lo uccise nell’aprile del 2009.
(Biografie da Wikipedia)
City
In City (già pubblicato su “Urania” con il titolo Anni senza fine) assistiamo al lento declino della specie umana, simboleggiata dalla famiglia Webster per innumerevoli generazioni, dall’anno 2000 al 20000. All’abbandono da parte dell’uomo delle città, divenute ormai un relitto di epoche preistoriche. All’inizio della civiltà canina prefigurata da Nathaniel, il primo Cane parlante, che insieme all’altro grande amico dell’uomo, il robot, prepara il mondo di un lontano futuro, quando l’uomo sarà scomparso dalla Terra. Ci sono le pagine grandiose del tentativo di colonizzare Giove, popolato da una razza indescrivibile nella quale l’umanità della Terra si annullerà, e poi la cupa e incomprensibile civiltà delle formiche, volte in silenzio alla conquista del pianeta. Allora i nostri ultimi discendenti si nasconderanno in un mondo spettrale che solo i Cani presentono… Un romanzo epico e visionario, degno erede dei classici di Olaf Stapledon e H.G. Wells
Titolo: “City” tradotto anche col titolo “Anni senza fine” | Titolo originale: City (1952) | Autore: Clifford D. Simak | Per tutte le edizioni del romanzo clicca QUI
Il romanzo “Anni senza fine”, conosciuto anche come “City”, (“City”) di Clifford D. Simak è stato pubblicato per la prima volta nel 1952. Ha vinto l’International Fantasy Award. In Italia è stato pubblicato come “Anni senza fine” da Mondadori nei nn. 18 e 333 bis di “Urania”, nel n. 688 di “Oscar”, nel n. 2 de “I Libri di Urania” e nel n. 182 dei “Classici Urania” nella traduzione di Tom Arno (Giorgio Monicelli) e dall’Editrice Nord nel n. 3 di “Cosmo Biblioteca” nella traduzione di Ugo Malaguti e come “City” dalla Libra Editrice nel n. 3 dei “Classici della Fantascienza nella traduzione di Ugo Malaguti e di nuovo da Mondadori nel n. 157 di “Urania Collezione” nella traduzione di Giorgio Monicelli.
All’inizio del XXI secolo la tecnologia ha fatto passi da gigante nella costruzione di mezzi di trasporto straordinariamente efficienti e veloci. La conseguenza è che gli esseri umani hanno cominciato ad abbandonare le città perché possono andare a vivere in campagna e spostarsi molto velocemente per andare a lavorare dovunque.
La progressiva morte delle città è solo uno dei tanti grandi cambiamenti che avvengono nella società umana del futuro. L’esplorazione spaziale porta a contatti con alieni, che in vari modi influenzano gli umani. Nel corso dei secoli, sulla Terra la famiglia Webster, protagonista di tanti cambiamenti, contribuisce anche all’evoluzione dei cani.
“Anni senza fine” è un romanzo composto da vari racconti pubblicati tra il 1944 e il 1951 sulla rivista “Astounding Science-Fiction” che successivamente sono stati raccolti in un romanzo. I racconti, che narrano storie separate anche da millenni, sono accompagnati da introduzioni che li collegano e ne segnano il tono. Un ultimo racconto venne scritto nel 1972 ed è perciò presente solo nelle edizioni successive a quell’anno.
Il risultato è che Clifford D. Simak riesce a creare una grande storia unificata superando quelle che generalmente sono limitazioni derivanti dall’unione di racconti ambientati in tempi molto diversi. Soprattutto, i racconti che formano il romanzo diventano leggende arrivate fino alla civiltà dei cani.
Le introduzioni ai racconti sono scritte in un futuro lontanissimo in cui i cani hanno una loro civiltà e le prove dell’esistenza degli esseri umani sono scomparse. La conseguenza è che sono rimaste solo antichissime storie su di essi ma tra i cani ci sono accesi dibattiti sulla loro attendibilità.
Gli eventi che hanno portato alla nascita della civiltà dei cani e alla perdita della memoria dell’esistenza degli esseri umani vengono spiegati nei vari racconti. La civiltà umana passa attraverso profondi cambiamenti, a cominciare dall’abbandono delle città. Esse sono rese ormai inutili dagli enormi progressi dei mezzi di trasporto, che permettono di spostarsi rapidamente anche attraverso notevoli distanze.
Clifford D. Simak era fortemente legato a un mondo bucolico e “Anni senza fine” comincia con il ritorno della gente alla campagna. Sembra quindi paradossale che quel cambiamento rappresenti il primo atto del declino della civiltà umana. D’altra parte, sotto vari punti di vista gli esseri umani sono descritti in maniera negativa, tanto che secondo alcuni studiosi tra i cani essi non sono mai esistiti ma sono stati inventati come una sorta di spauracchio per i bambini.
Al centro dei grandi cambiamenti nella civiltà umana c’è la famiglia Webster, che rappresenta i lati positivi ma anche quelli negativi degli esseri umani. I membri della famiglia sono spesso brillanti e le loro opere influenzano la storia umana ma non sempre in modo positivo. Alcuni di loro portano progresso ma altri finiscono per causare involontariamente danni all’umanità.
La storia della famiglia Webster e del robot Jenkins, al servizio di molte generazioni di Webster, permette di capire i cambiamenti che avvengono nel corso di millenni nella civiltà umana e l’ascesa della civiltà dei cani. Il fatto che la storia dell’umanità vada in qualche modo dedotta da quella della famiglia Webster può non piacere ad alcuni lettori ma secondo me è un modo efficace di raccontare la storia.
Le introduzioni ai racconti danno un certo tono fiabesco, anche grazie alla loro ambientazione spesso bucolica. Ciò permette a Clifford D. Simak di dare il suo meglio in una grande storia che diventa spesso filosofica con tante riflessioni da parte di esseri umani, di cani e occasionalmente di altre creature.
Se cercate storie d’azione, “Anni senza fine” decisamente non fa per voi. I vari racconti esplorano le possibili conseguenze di certe scelte e anche i personaggi alla fine servono a rappresentare certe idee. La conseguenza è che il loro sviluppo è limitato, anche perché pochi di essi sono presenti in più di un racconto.
“Anni senza fine” è una storia di fantascienza che definire umanistica è a rigor di termini solo in parte corretto perché ci sono anche i cani. Al di là delle definizioni, è giustamente considerato un grande classico che non può mancare nella collezione di chi sia interessato alla fantascienza ma secondo me va letto a prescindere dalle etichette di genere.
Massimo Luciani
L’AUTORE
Clifford Donald Simak (Millville, 3 agosto 1904 – Minneapolis, 25 aprile 1988) è stato uno scrittore, giornalista e autore di fantascienza statunitense. Fu insignito di numerosi e prestigiosi premi della letteratura fantastica e fantascientifica come il premio Hugo, il Nebula e il Grand Master Award alla carriera, ricevuto nel 1977. Clifford D. Simak nacque a Millville, nel Wisconsin, figlio di John Lewis Simak, originario boemo, e di Margaret Wiseman. Nella località rurale di Millville egli visse anche la sua giovinezza, e ciò già spiega la primazia degli scenari agresti, tipici d’altronde di tutto il Midwest americano, che delineano il corpus delle sue opere letterarie. Simak studiò giornalismo all’Università del Wisconsin e, a partire dagli anni trenta, collaborò a diverse testate di Michigan, Iowa, Carolina del Nord e Missouri. Ad ogni modo, Simak legò la sua professione di giornalista principalmente al Minneapolis Star and Tribune (Minneapolis (Minnesota)), per il quale lavorò a partire dal 1939 e sino al 1976, occupandosi regolarmente di una rubrica settimanale di divulgazione scientifica. Divenne fra l’altro editore del Minneapolis Star nel 1949 e coordinatore del Minneapolis Tribune e del Science Reading Series nel 1961. Sposatosi il 13 aprile 1929 con Agnes Kuchenberg, ne ebbe due figli, Scott e Shelley. Morì al Riverside Medical Center di Minneapolis nel 1988, all’età di 83 anni. (Bio da Wikipedia)
Se vi piacciono le recensioni e gli articoli di Massimo Luciani vi invitiamo a visitare il suo blog NetMassimo.com:
Archeologia fantastica
Dove spariscono gli uomini e le donne avvolti dalla luce azzurra? Un nuovo pericolo minaccia astronauti e pionieri spaziali: un globo luminoso dotato – a quanto sembrerebbe – di intelligenza propria getta il panico sui mondi conquistati dai terrestri. Ma soprattutto si accanisce contro chiunque dimostri troppa curiosità, e cerchi di penetrare il grande segreto del Sistema Solare. E’ una lunga, pericolosa, difficile lotta contro un avversario di cui non si conoscono né l’aspetto, né la forza, né gli scopi.
Titolo: L’atomo azzurro | Autore: Robert Moore Williams | Titolo originale: The Blue Atom, 1958 | Edizioni italiane | Tutte le edizioni del romanzo
Robert Moore Williams, prolifico autore dell’era pulp, continuò la sua produzione fino agli anni ’70; come dice la SF-Encyclopedia, “by the 1960s had published over 150 stories. Though most are unremarkable, he was an important supplier of competent genre fiction during these decades”.
Questo “Atomo azzurro” fu pubblicato nel ’55, ma è rimasto alla Golden Age in tutte le caratteristiche: intrepidi spaziali dai nomi monosillabici, rotti a tutte le incognite del cosmo ma smarriti davanti a una donna (che non potrà che essere un’avvenente rampolla di abbiente famiglia, dedita all’archeologia planetaria sulla sua astronave personale, profumata); un pianeta Venere fatto di giungle, indigeni infidi e selvaggi da civilizzare, e bassifondi battuti dalla pioggia, come nei racconti di Northwest Smith; città abbandonate nascoste nelle caverne di Mercurio; macchinari di potenza straordinaria, che permettono di balzare da un pianeta all’altro come se si prendesse il metrò, ma si possono anche usare come armi a mano.. siamo di fatto ancora nell’epoca della “Pattuglia galattica” di E.E. ”Doc” Smith, con una spruzzata di “Schiavi degli invisibili”: il misterioso “Atomo azzurro” sembra in grado di leggere le menti di chi gli si oppone..
Non manca intenso e genuino sense of wonder:
“La luce raggiunse la mente umana producendovi effetti incredibili. Jarr Rahmer ebbe la sconvolgente impressione di essere al centro del sistema solare e di vederlo tutto insieme, in un unico istante, in una visione che gli sembrava perfettamente reale. Era vicino al Sole e guardava contemporaneamente in tutte le direzioni del sistema. Lì accanto il grande astro fiammeggiava, con una luminosità insopportabile. Lontano, i pianeti, sparpagliati nel mare di cristallo dello spazio.
Quel barbaglio luminoso lassù era Venere, il pianeta su cui in realtà si trovava, ma dove non gli pareva più di essere in quel folle momento. Più avanti la Terra, con le sue verdi montagne: la culla della razza umana. E molto più lontano i grandi pianeti che si muovevano in cerchi maestosi. Più oltre, perduti nell’immensità del mare di cristallo..
Tutto questo mentre brillava la luce azzurra.
E contemporaneamente sopraggiunse il freddo dello spazio, l’alito del gelo profondo degli abissi, il gelo che sopravviene quando ogni momento cessa, il gelo che esiste là dove scompaiono gli asteroidi.”
“Lui e gli altri erano assorti nella contemplazione dell’aerea città che sorgeva di fronte a loro. C’era da rimanere senza fiato. Alte cupole unite da una rete di passaggi aerei, torri che si lanciavanmo nel cielo: una città di vetro e di metallo lieve e delicata come una ragnatela. (..)
Qui, nelle viscere di Mercurio, la città morta della Grande Razza era bella come un sogno. Ma un sogno spettrale. Una città abbandonata. Larghi corsi, vie spaziosissime portavanmo in centro, ma era difficile distinguere qualcosa sotto il manto della vegetazione che aveva invaso tutto, anche le torri più alte.”
La misoginia raggiunge effetti di comicità involontaria:
“ ‘Una donna?’ ripetè Rahmer, stupito. Le donne non entravano nella Confederazione. Accompagnavano i loro uomini nello spazio, ma a capo della spedizione era sempre l’uomo,e la donna si contentava di seguirlo.”
“Rahmer sentiva di trovarsi di fronte a un nuovo problema, che lui non aveva mai affrontato e neanche capito: una donna. Ma qualcuno nello spazio capiva le donne? (..) Bill Nex, che si era sposato e quindi sosteneva di conoscere le donne, risolse il problema: ‘è soltanto svenuta’ “.
Estraneità che non esclude fantasie di stupro:
“ ‘Helker (lo spaziale traditore, che sta per acquisire potere assoluto) avrà sempre bisogno di meccanici, soprattutto bravi. E avrà sempre bisogno..’ Rahmer non potè dire di più.
‘conosco la storia e so cosa capita alle donne quando qualcuno si impadronisce di un enorme potere’ disse Kay” (la bella della storia).
In fondo non è che un romanzetto avventuroso (110 pagine compresa tanta pubblicità delle più svariate collane Mondadori di allora), un piacevole fumettone che noi considereremmo un “juvenile”. Perché leggerlo, allora? Per ricordare le origini ingenue di questo genere. Per me, poi, c’era un motivo personale: è il primo Urania che abbia letto, quasi quarant’anni fa alle elementari; e non ne ricordavo assolutamente niente, anzi me lo aspettavo diverso! Ma si vede che era quel che ci voleva, allora.
In appendice, “Divieto di caccia”, un raccontino di John Christopher (Specimen, 1972) e “L’orologio nel cielo” (The clock in the sky, 1972), un saggio davvero brillante di Asimov: non avevo idea che la velocità della luce fosse stata misurata già nel ‘600.. e in che modo!
Antonio Ippolito
L’AUTORE
Robert Moore Williams (Farmington, 1907 – 1977) è stato uno scrittore e autore di fantascienza statunitense. La sua prima opera pubblicata fu Zero as a Limit, apparsa sulla rivista Astounding Science Fiction nel 1937 e firmata come Robert Moore. Prolifico scrittore, il suo ultimo romanzo è del 1972.
Urania collezione 166
Trent’anni fa i giovani del ’68 sono diventati la classe dirigente, hanno avuto figli a cui trasmettere il potere e molti sono già andati in pensione o si apprestano a farlo, dopo aver ampiamente trasformato la civiltà occidentale. Ma siamo sicuri che siano disposti a uscire di scena, loro che hanno rappresentato la generazione più radicale dei nostri tempi? E d’altra parte, quale alternativa avrebbero visto che tutti dobbiamo morire? Norman Spinrad risponde con un romanzo dell’immediato futuro che parte dalla ricerca dell’immortalità (e dell’ibernazione artificiale) per arrivare alla definitiva mercificazione di ogni attività umana.
Leggi tutto su http://andromedasf.altervista.org/edicola-urania-novembre-2016/
Una nota personale: al potere (come sempre) ci sono andati quelli che hanno accettato più di un compromesso; altrimenti sono rimasti a guardare come tutti noi.
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