storia

Le radici degli italiani

Nel momento in cui forse per i rumori di guerra che ci circondano e per l’ incertezza della situazione, ci si chiede dove si andrà a finire, il Prof. Paolo Possenti con ‘Le radici degli italiani’ edizioni Effedieffe ci mostra un sentiero luminoso. Un’opera storica gigantesca, condotta sul filo di un pensiero storico – politico che fa del Possenti uno dei maggiori pensatori e politologi dell’attuale momento storico.1350 pagine di storia totalmente rivissuta e rivisitata che fanno giustizia delle storiografie “ufficiali” e spesso di stampo anglosassone che dipingono l’ Italia come un paese di seconda classe, gli italiani un popolo di soldati che scappano, che vivono della luce altrui, insomma un’ italietta. Possenti mette in crisi l’impianto protestante massonico ed anglosassone che così mira a svilire l’Italia per svilire Roma e la Romanità per svilire il Cristianesimo.Interi capitoli di storia italiana e storia europea che rivivono in questo magistrale testo di storia…(fonte: varianti.it e interviste al prof. Paolo Possenti del Possente)

Anna Rossi su Facebook

Nota: purtroppo (non a caso) il libro ha un costo spropositato: 155 euro!

Editore:EffedieffeEdizione: 2 Anno edizione: 2001 In commercio dal: 1 gennaio 2001 Pagine: 4 voll., 1335 p., ill. , Brossura

  • EAN: 9788885223271
sociologia

Teoria della classe disagiata

ll ciclo è questo:

1- si deindustrializza il Paese e se ne distruggono i corpi intermedi;
2- le classi subalterne accettano il processo e spingono per la ricerca della loro felicità attraverso il circuito edonistico dell’intrattenimento;(il c.d. riflusso: primi anni ’80 N.d.R.)
3- resesi atomi alla ricerca del godimento illimitato, esse non sono in grado di organizzarsi e non hanno più i luoghi politici, economici e sociali per farlo;
4- non pensano più che possano esistere soluzioni politiche ed egemoniche.

Quindi il lavoro culturale non viene più messo in piedi per fare del bene alla società, semmai ci si limita ad intrattenerla con i meme per la propria autorealizzazione (bellissimo il pezzo del saggio sulla produzione memetica), non certo per creare un mondo migliore. Per questo il lavoro culturale è vissuto come un’opportunità, non come qualcosa che debba garantire lo sviluppo della società: il lavoro culturale e politico non è più visto come servizio agli altri ma solo come realizzazione di se stessi.

Francesco Berni in http://appelloalpopolo.it/?p=35931&fbclid=IwAR3BIF1-R_pd9yq0zCda7yp-0t2LCP9T_JxRAxJ02OyQK5nCFTDFiPenHMo

Primo piano

Made in Italy

Ogni 48 ore un’azienda italiana cade in mani straniere. Alcuni casi finiscono sui giornali e fanno discutere, ma la maggior parte scivola via nel silenzio. Così, nel silenzio, non abbiamo soltanto perso tutto il made in Italy, i grandi marchi della moda, le aziende alimentari, i settori strategici (dalla chimica alla siderurgia), i servizi e le banche: abbiamo perso il meglio delle nostre piccole aziende, quei gioielli di creatività spesso nati nei sottoscala di provincia e diventati leader mondiali nel loro settore. Erano i nostri veri tesori. Ora non sono più nostri. I nuovi proprietari stranieri non sono quasi mai dei padroni, piuttosto dei predoni. Il risultato? L’Italia non è più italiana. È ciò che Mario Giordano ci svela nel suo libro-inchiesta: ha girato la Penisola strada per strada, ha visitato borghi e paesi, è entrato nelle fabbriche. E ha scoperto che i predoni stranieri non hanno conquistato solo la nostra economia: hanno conquistato l’intero nostro Paese. Dal castello piemontese del 1200 comprato dalla setta americana della felicità al palazzo della Zecca gestito dai cinesi, dall’isola di Venezia in mano ai turchi ai vigneti della Toscana acquistati dalla multinazionale belga delle piattaforme petrolifere, passando per supermercati, botteghe storiche, alberghi di lusso, case, piazze, ospedali: l’Italia non è più italiana. Persino la mafia vincente, ormai, è straniera. Da Cosa Nostra a Cosa Loro: le cosche nigeriane si sono estese da Torino alla Sicilia. E, intanto, si afferma la Cupola cinese. Ormai non siamo nemmeno più padrini a casa nostra. Dilaga la cucina etnica, ma ci sono 250 cibi italiani a rischio. Dilagano i termini inglesi, ma la nostra lingua rischia di scomparire. Persino gli insetti alieni minacciano il nostro Paese, come denuncia un rapporto allarmato dell’Ispra. E, soprattutto, si stanno estinguendo gli italiani: sempre meno nascite, sempre più fughe all’estero. Una ogni 5 minuti. Secondo l’opinione corrente l’apertura internazionale e gli scambi sono un bene a prescindere. Ma è sempre vero? Le decisioni strategiche sul nostro futuro, oggi, vengono prese in asettici uffici del North Carolina o di Shanghai, da persone che non hanno mai visto un’officina, che non hanno alcuna relazione con la nostra terra e la nostra storia. E questo è un pericolo per il nostro Paese, come hanno denunciato anche i servizi segreti, nella loro relazione al Parlamento italiano. Un grido di dolore rimasto, incredibilmente, inascoltato.

storia

Politiche sociali al tempo del fascismo

“Sicurezza sociale indica l’impegno da parte delle autorità pubbliche per garantire a tutti un reddito minimo di sopravvivenza e per combattere cinque grandi «giganti» cattivi, che minacciano la dignità dei cittadini: la miseria, la malattia, l’ignoranza, il degrado provocato da abitazioni malsane e l’ozio connesso alla disoccupazione e alla dipendenza.”

Sir William Beveridge.

L’espansione delle «politiche sociali» – secondo l’espressione del tempo – all’interno del fascismo e del nazismo è la risposta a spinte di diversa natura, spesso difficilmente distinguibili tra loro con nettezza. Inoltre, può accadere che i medesimi provvedimenti servano a molteplici obiettivi. Ciononostante, vale ugualmente la pena proporre una classificazione per far risaltare le analogie e le differenze con le «vie» seguite dagli altri Paesi.

Una prima spinta accomuna i fascismi ai sistemi politici democratici e consiste nel mettere in campo misure di intervento dello Stato nella società e nell’economia per curare gli effetti della crisi sugli individui e soccorrere le imprese, evitando al contempo il ripetersi del crack [Vaudagna 1981]. Da questo punto di vista, le parole del duce sono di estrema chiarezza: nel 1933, pronunciando il Discorso sullo Stato corporativo divenuto celebre, Mussolini afferma che la depressione non è una crisi «nel» sistema capitalistico, bensì «del» sistema e auspica, perciò, una regolazione piena, organica e totalitaria della produzione[7]. Tuttavia, mentre il corporativismo resta prevalentemente materia di convegni e di propaganda, la soluzione concretamente adottata passa per la creazione di enti quale l’Istituto Mobiliare Italiano (1931) e l’Istituto per la Ricostruzione Industriale (1933) tramite i quali il potere pubblico si avvia a manovrare direttamente una fetta consistente dell’economia nazionale[8].

L’IRI, in particolare, acquisisce addirittura il controllo del 42% circa del capitale investito nelle società per azioni, spaziando dalla siderurgia bellica e comune alla cantieristica, dall’elettricità all’auto fino al tessile. Solo questa dilatazione della «mano visibile» dello Stato fino a coprire i gangli fondamentali del sistema economico italiano può indurre il fascismo a concepire nel 1936 un piano per lo sviluppo autarchico del Paese all’insegna dello slogan «Preferite il prodotto italiano». Contemporaneamente, il Duce approfondisce la politica di opere pubbliche già affacciata negli anni Venti con le prime bonifiche e la allarga a nuovi settori come la viabilità e l’elettrificazione delle ferrovie, riducendo la disoccupazione: tra il 1929 e il 1936 la spesa pubblica cresce da meno del 20% del Pil a oltre il 33%[9].

Per quanto riguarda la politica sociale in senso stretto, il fascismo si muove nell’ottica di estendere i benefici delle assicurazioni preesistenti alle famiglie dei lavoratori, senza alterare il dispositivo assicurativo, squisitamente italiano, nei suoi lineamenti fondamentali [Silei 2003; Procacci 2008; Bartocci 1999 e 2005; Alber 1983]. In questa direzione va ad esempio la creazione nel 1936 di una Cassa nazionale per gli assegni familiari degli operai industriali. Si pensi che mentre la spesa sociale nella seconda metà degli anni Venti è pari a 300-400 milioni di lire annui, nel decennio successivo tocca 1-1,5 miliardi. Inoltre, il regime adotta tutta una gamma di provvedimenti per spingere le donne verso la sfera domestica e liberare così posti di lavoro per gli uomini, considerati, per principio naturale, i capi del nucleo familiare. Tali provvedimenti confluiscono in una legge del 1938, che limita d’imperio il personale femminile sia nel settore pubblico sia in quello privato al 10% del totale [Gaeta, Viscomi 1996, 245].

estratto da Andrea Rapini, I «cinque giganti» e la genesi del welfare state in Europa tra le due guerre, “Storicamente”, 8 (2012), no. 8. DOI: 10.1473/stor410

libri

Un altro treno perso

 

Abravanel Roger e D’Agnese Luca
Regole
Perché tutti gli italiani devono sviluppare quelle giuste e rispettarle per rilanciare il paeseSaggi

376 pagine
€ 18.60
ISBN 978881160113-5

«In fatto di regole gli italiani sono fra i più moralisti d’Europa. Nei sondaggi la nostra riprovazione per i piccoli e grandi illeciti è più elevata di quella dei francesi, dei tedeschi, degli inglesi.
Nella vita di tutti i giorni però il moralismo tende a trasformarsi in opportunismo: le regole sono ostacoli da aggirare, magari con qualche “aiutino”.
Perché questo divario?
Come aggirarlo?
Abravanel e D’Agnese propongono delle risposte che meritano una riflessione.»
Maurizio Ferrera, Corriere della Sera

«Regole, un saggio che fissa la necessità del nostro sistema d’impresa di crescere e terziarizzarsi: pesi medio-grandi tra giganti e non più nani inconsistenti.»
Marco Alfieri, La Stampa

«L’idea di fondo che anima le proposte avanzate in Regole è che per far funzionare le regole in Italia l’etica non basta: occorre dimostrare che seguire le regole conviene.
Finché noi italiani non ne saremo convinti, troveremo sempre una buona ragione per non rispettarle: perché sono ingiuste, perché il nostro vicino non le rispetta, perché prima o poi arriva un condono…»

Roger Abravanel e Luca D’Agnese sul Corriere della Sera

«L’Italia ha due problemi: regole sbagliate e cittadini che non le rispettano.
È questa la causa dell’immobilità economica e sociale del nostro Paese.
Le regole giuste sono sempre state alla base dello sviluppo e dell’innovazione.
Bisogna rispettarle non solo per ragioni morali ma perché è un buon affare.»

Anno dopo anno, l’Italia sta retrocedendo in tutte le classifiche relative allo sviluppo economico, alla disoccupazione giovanile, all’educazione e alla ricerca, ai diritti dei consumatori. Mentre sale nelle graduatorie che misurano l’evasione fiscale, la corruzione, l’abusivismo edilizio, la lentezza della giustizia.
Tutte queste criticità sono però accomunate da un grave limite, che porta alla degenerazione dell’intero sistema: l’Italia non ha saputo darsi le regole giuste. In genere da noi leggi, norme e regolamenti sono troppo numerosi e troppo complicati, tanto che diventa molto difficile rispettarli. Così chi non li rispetta viene spesso condonato o amnistiato, mentre cittadini e imprese si adattano all’elusione di massa. Per rimediare, vengono emanate nuove regole, sempre più severe, e la situazione peggiora.
È quello che Roger Abravanel e Luca D’Agnese hanno definito «il circolo vizioso delle regole», che rende impossibile qualunque serio progetto di riforma. Senza regole, o con regole sbagliate, l’economia non si sviluppa, perché le imprese «piccole, brutte, anzi bruttissime» fanno concorrenza sleale a quelle innovative.
Senza regole, o con regole sbagliate, governare una società sempre più complessa, dove i servizi hanno un peso crescente rispetto ai prodotti, è impossibile.
È troppo facile scaricare la responsabilità del declino italiano sui politici e sulla classe dirigente.
Regole dimostra che dobbiamo innescare un circolo virtuoso delle regole in tutta la società: un processo che coinvolga i cittadini, che devono essere informati e partecipare alla definizione e al miglioramento delle regole grazie a una scuola che non deve solo trasmettere nozioni, ma formare le «competenze della vita» necessarie per interagire efficacemente con gli altri; una giustizia civile veloce; un sistema dell’informazione indipendente dalla politica e dagli affari.

Roger Abravanel e Luca D’Agnese dimostrano che seguire le regole non solo è giusto, ed evita sanzioni di vario tipo: è soprattutto conveniente. E avanzano cinque proposte concrete che possano finalmente far ripartire il nostro paese.

Interviste e recensioni on line:

Rubrica Billy del TG1

Intervista a Roger Abravanel su TV7, Raiuno

Europa Oggi

Strettamente personale

La frusta.net

Alcuni link interessanti:

Pagina Facebook di Regole

Il sito di Meritocrazia il precedente saggio di Roger Abravanel

Il blog di Meritocrazia sul Corriere della Sera

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SINOSSI DEL LIBRO

1. IL CAPITALISMO DELLE REGOLE

L’importanza delle regole e della rule of law per la nascita e per lo sviluppo del capitalismo.

2. LE DIFFICILI REGOLE DEL MONDO DI OGGI

L’aumento del numero e della complessità delle regole causato dallo sviluppo del settore dei servizi nell’economia mondiale.

3. IL RITARDO STRUTTURALE DELL’ECONOMIA ITALIANA

Il ritardo accumulato dall’Italia rispetto alle altre economie dell’Occidente, in particolare nel settore dei servizi.

4. PICCOLO É BRUTTO, ANZI BRUTTISSIMO

Le regole che oggi bloccano lo sviluppo dei servizi in Italia, favorendo il «piccolo» (le piccole aziende, gli artigiani, le professioni, il commercio) e limitando lo sviluppo delle grandi imprese.

5. I RISCHI DELLE REGOLE DEL NUOVO MILLENIO

Il futuro delle regole: la crescita dei rischi e dei costi in settori chiave dell’economia mondiale (sanità, ambiente, finanza). Nuove problematiche hanno bisogno di «nuove regole », che nessuno ha ancora trovato.

6. OPPORTUNITÀ DEL FUTURO IN RITARDO MA RISCHI PUNTUALISSIMI

Come stiamo affrontando in Italia le sfide regolatorie del futuro nella sanità, nell’ambiente e nella finanza? Corriamo gli stessi rischi degli altri ma spesso non ce ne accorgiamo e perdiamo così l’occasione di gestirli con intelligenza.

7. IL CIRCOLO VIRTUOSO DELLE REGOLE

Come le società evolute affrontano il problema delle regole e le trasformano in un vantaggio competitivo: attraverso un processo di sperimentazione e miglioramento progressivo delle nuove regole, guidato da una società che vigila sul loro rispetto e sulla loro efficacia mediante l’educazione dei cittadini, la giustizia civile, i media e i regolatori.

8. IL CIRCOLO VIZIOSO DELLE REGOLE IN ITALIA

Il malfunzionamento del «circolo virtuoso delle regole» nel nostro paese (dove diventa un «circolo vizioso»): leggi e regolamenti, spesso sbagliati, non vengono fatti rispettare, l’illecito diviene diffuso ed è giustificato, il che produce regole sempre peggiori perché la società italiana non vigila.

9. LA MALEDUCAZIONE CIVICA DEGLI ITALIANI

La prima delle cause della scarsa vigilanza della società: la mancanza di educazione nella società italiana. Le colpe della scuola, dell’università e del mondo delle imprese.

10. MEDIA CHE NON VIGILANO LA SOCIETÀ

La mancata vigilanza dei media in Italia e le sue cause: una società poco educata non crea un mercato per media indipendenti e di qualità.

11. UNA GIUSTIZIA CIVILE CON I TEMPI DEL GABON

Il fallimento del terzo pilastro della vigilanza sul rispetto delle regole in Italia: una giustizia civile dai tempi lunghissimi, che crea costi enormi alla società e favorisce chi non rispetta i patti.

12. I SEMI DELLE REGOLE

Quando il circolo virtuoso delle regole funziona anche nel nostro paese: quattro esempi nel mondo della sanità, del business delle scommesse, nella giustizia civile e nella scuola.

13. LA GUERRA LAMPO DELLE REGOLE

Cinque proposte per invertire il circolo vizioso italiano nell’economia dei servizi, nell’organizzazione della scuola e della giustizia e nella governance della RAI.

 

 

Altri libri di Abravanel Roger e D’Agnese Luca :

 

libri, Primo piano, Società

Vent’anni dopo

Queste annotazioni nascono da un episodio specifico: la visita alla Fiera del libro (per ragazzi e del libro scolastico) di Bologna, ma sono lo specchio di una situazione generale del “sistema Italia” alla vigilia dell’integrazione europea.

Per la cronaca, il mio scopo era presentare un “giocolibro”

didattico a supporto dello studia della storia, e ho iniziato la

mia visita dai padiglioni stranieri.

Qui l’atmosfera era tranquilla e rilassante, gli addetti agli

stand erano presenti e si sono dimostrati disponibili a vagliare

il materiale proposto; anche quelli non interessati hanno avuto un

atteggiamento di cortese incoraggiamento nei confronti del

progetto proposto.

Appena entrato nell’area italiana, tenuta giustamente distinta,

sono stato accolto da livelli di rumore ben più elevati, eppure

non c’era molta gente, avendo io scelto l’ora meno affollata: le

13.

Non si deve immaginare però che tale confusione fosse dovuta al

fervore delle attività, anzi: chi era rimasto agli stand faceva

crocchio, parlando a voce alta dei propri fatti quotidiani senza

degnare di uno sguardo chi era in evidente attesa di colloquio; se

però li si interpellava, si scopriva che:

a) il responsabile era a pranzo e
a.l) sarebbe tornato versa le l6
a.2) sarebbe tornato l’indomani;

b) il responsabile non era venuto in fiera
c) nessuno sapeva chi fosse il responsabile.

In un altro caso era presente il funzionario che si occupava delle materie umanistiche, ma interpellato, dichiarava che il suo settore non comprendeva la storia <!>, fortunatamente il responsabile per la storia sarebbe arrivato l’indomani.

In altri casi mi veniva consigliato di inviare il materiale direttamente alla casa editrice, ma in ogni caso i tempi di risposta sarebbero stati lunghi, perché bisognava fare i conti con le festività pasquali, quelle del 25 aprile e quelle del ÌA maggio, poi ci sarebbe stato giusto circa un mese di tempo prima delle ferie.

In un altro stand l'”alto funzionario” era casualmente presente perché invitato ad una tavola rotonda, ma era impegnato a spiegare al direttore (o meglio alla segretaria del direttore) di una rivista le caratteristiche della nuova produzione editoriale.

Messomi in paziente attesa, ho scoperto che il metodo(funzionante nei padiglioni stranieri) qui non sortiva alcun effetto: l’unico modo di attirare la sua attenzione era quello praticato da altri che, nel frattempo, mi scavalcavano chiamandolo “carissimo” e dandogli poderose manate sulle spalle.

Potendo poi anche cogliere frammenti di conversazione, avevo modo di verificare che il rispettabile interlocutore stava facendo sfoggio della sua erudizione, attribuendo “L’ Orlando innamorato” a Luigi Pulci, errore del resto perfettamente scusabile per un direttore di rivista letteraria.

Per carità di patria . taccio poi dei commenti degli insegnanti, che nel frattempo tornavano a popolare gli stand, esaurite le grandi manovre del pranzo, vantando le meraviglie del “loro” libro di testo preferito.

CONCLUSIONI

Vorrei sottolineare prima di tutto che i fatti sopra riferiti sono

realmente accaduti, (lo può testimoniare la persona che era con me

a farmi da interprete) e che il quadro descritto dà alcune idee su

cosa non funziona in Italia.

Ad esempio, un po’ come nel Messico delle barzellette, la parola più usata è domani (ma nel senso di maňana, un domani che può anche non venire mai); poi una parcellizzazione del lavoro che ignora le conoscenze e frammenta le competenze (eredità evidente del modello politico).

Ma non voglio addentrarmi qui in complicate analisi, visto l’intento puramente descrittivo di queste mie note; so però di avere lasciato aperto un interrogativo: è venuto il giorno dopo il responsabile per la Storia della nota casa editrice torinese? Ebbene si’” ma non poteva dirmi niente, perché la cosa era di competenza del funzionario addetto ai Supporti Didattici (purché non informatici, però).

Bologna (Italia), aprile 1992

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Direi che questa nota spiega perfettamente il perché l’Italia è finita nel girone dei PIGS