Teatro

E pensare che c’era il pensiero

di

Teodoro Klitsche de la Grange05 novembre 2021

Come scrive l’autore “ora, in questa nostra epoca così apparentemente illuminata, abbiamo dichiarato che restare ancorati alla realtà sia una cosa da condannare. Perciò non abbiamo semplicemente finito col credere in alcune falsità”, ma alla falsità, compreso il non essere, inteso al minimo come ciò che non esiste, anzi ciò che ragionevolmente non può esistere. La diffusione di tale credenza è sorprendente, e contraddice la pretesa di essere, nel contempo, dei “fedeli della ragione”. Perché credere in una cosa che non è ma addirittura non può essere, serve solo ad illudersi o ingannare gli altri. Come scrive Dante “Ti fai grosso / col falso imaginar, sì che non vedi / ciò che vedresti, se l’avessi scosso”. Così una volta creduto nell’irrealtà, si deve conseguentemente svincolarsi dalla logica e dall’esperienza. Scrive Esolen: “Uno dei sintomi dell’irrealtà è sicuramente l’incapacità di riconoscere la propria stupidità… Tutti, in qualche maniera, siamo degli sciocchi: ci sono gli sciocchi che lo sanno, e gli sciocchi che, non sapendolo, sono ancora più sciocchi”, scrive l’autore descrivendo la parabola delle università americane popolate, del tipo umano Homo academicus saecularis sinister.

Nell’illudersi un’importanza decisiva ha il linguaggio “Una delle strane caratteristiche della Città Irreale è l’ossessione simultanea per il linguaggio e un rifiuto generale di riconoscere a cosa serve il linguaggio”. Nomina sunt consequentia rerum dicevano i romani: invece oggi, precisa l’autore “Vogliamo creder che le nostre parole possono alterare la realtà”. Solo che questo significa creare il falso: un uomo che afferma di essere una donna, e pretende di essere considerato e chiamato tale, continua ad essere un uomo. D’altra parte, secondo un noto detto, il Parlamento inglese poteva fare qualsiasi cosa, tranne che cambiare l’uomo in donna; tale limite non c’è per i creatori e fedeli di certi idoli, tendenzialmente creduli nell’onnipotenza (delle parole).

Il che somiglia assai più che a un ragionamento a un desiderio che si trasforma in obiettivo, in un quid da realizzare. Senza però chiedersi se sia realizzabile. Con ciò presupporrebbe una potenza (o onnipotenza) che non è nelle disponibilità umane. Basta all’uopo constatare – a livello macroscopico – qual è stata la sorte del comunismo, il cui esito era la società comunista o senza classi. Già nel giovane Marx il comunismo era indicato come la soluzione dell’enigma irrisolto della storia. Ossia la formula per cambiare la natura umana mutando i rapporti di produzione. L’instaurazione della società senza classi avrebbe comportato l’estinguersi dello Stato e del politico. Solo che non c’era un esempio nella storia che ciò si fosse verificato. I presupposti del politico, cioè l’insopprimibilità (la costanza) del comando/obbedienza, del pubblico/privato, dell’amico/nemico, risultavano dati in ogni comunità umana conosciuta (l’uomo è zoon politikon). Il resto della parabola dimostra che il comunismo realizzato (cioè il socialismo reale) ha retto solo perché (contrariamente alle intenzioni) ha potenziato le tre costanti. Ha creato dittature sovrane, società che hanno quasi completamente annichilito il “privato”, ha avuto nemici (la borghesia, ecc.) come qualsiasi altro regime politico.

Dopo poco più di settant’anni (al massimo, per l’Urss) il tutto è finito per implosione, dato che la stessa classe dirigente non credeva più nel sistema e della società senza classi non si sentiva il profumo, neanche alla lontana. Il tutto può ripetersi in utopie/illusioni che presentino caratteri analoghi: obliterare la realtà per andare appresso all’immaginazione di essa. Cosa che, come scriveva Machiavelli, porta alla “ruina sua”. E causa di quella ruina è aver creduto all’impossibile. Cioè alla fuga dalla realtà e dalle costanti che la governano.

Sex and the unreal city, La demolizione del pensiero occidentale di Anthony M. Esolen, Il Timone, Milano 2021, 233 pagine, 22 euro

Musica

RAF

Prima dei blog c’erano le Radio private: quella della nostra associazione era Radio Alto Ferrarese che trasmetteva a Bondeno (Ferrara) sui 92.9; una delle rubriche settimanali era dedicata ai libri

Trasmissione settimanale sui libri di Radio Alto Ferrarese del dicembre 1980. Contiene il testo di un’intervista a Norberto Bobbio su intellettuali e potere. Accompagnano le musiche dell’album in modenese di Angelo Bertoli. Presenta Paolo Giatti

Musica

Ultima Thule

 

thule

pdf121Thule (o anche, in italiano, Tule) è un’isola divenuta leggendaria, che compare citata per la prima volta nei diari di viaggio dell’esploratore greco Pitea (Pytheas), salpato dalla colonia greco-occidentale di Massalia (l’odierna Marsiglia) verso il 330 a.C. per un’esplorazione dell’Atlantico del Nord. Nei suoi resoconti (screditati da Strabone) si parla di Thule come di una terra di fuoco e ghiaccio nella quale il sole non tramonta mai, a circa sei giorni di navigazione in direzione nord dall’attuale Gran Bretagna. Fu citata anche da Tacito nella sua opera De vita et moribus Iulii Agricolae in cui tratta dell’esplorazione e della conquista della Britannia.

 

 

Musica, Spettacoli

Choi-oi! L’incredibile avventura delle Stars nel Vietnam del ’68

Choi-oi! L’incredibile avventura delle Stars nel Vietnam del ’68
Le Stars a Livorno.JPG

Le Stars negli anni settanta.
Da sinistra: Franca Deni, Daniela Santerini, Rossella Canaccini, Viviana Tacchella, Manuela Bernardeschi.

Autore Daniela Santerini
1ª ed. originale 2018
Genere diario
Lingua originale italiano
Ambientazione sud-est asiatico
Personaggi gruppo musicale de Le Stars

Choi-oi! – L’incredibile avventura delle Stars nel Vietnam del ’68 è un libro di Daniela Santerini edito da Youcanprint riguardante i tre mesi trascorsi nel Vietnam del Sud nel 1968-69. Si basa essenzialmente sul diario tenuto da Daniela Santerini, tastierista, ed è corredato da alcune lettere inviate ai familiari da Viviana Tacchella, chitarrista del gruppo “Le Stars”, e brani del diario annotato nel medesimo periodo da Rossella Canaccini, la cantante, e narra le vicissitudini di cui furono protagoniste le componenti del girl group toscano de Le Stars che fra il novembre 1968 e il gennaio 1969, a causa di un fraintendimento contrattuale, si trovò catapultato ad esibirsi nel sud-est asiatico.

Nell’infuriare della guerra del Vietnam, il gruppo – dal repertorio soul, r’n’b, beat – si trovò a suonare brani della tradizione melodica italiana come Volare, alternati a brani rock in voga all’epoca, per le truppe USA di stanza nelle basi militari dislocate nell’allora Saigon – oggi Ho Chi Minh City -, a Chu Lai, nei pressi del delta del Nam Trung Bo e a Đà Nẵng.

Il titolo Choi-oi sta a indicare un’esclamazione in dialetto sudvietnamita che significa “Oh, mio Dio!”.

https://it.m.wikipedia.org/wiki/Ci%C3%B2i%C3%B2i_%2768_-_In_Vietnam_con_l%27orchestrina

Cinema

Quaderni di documentazione

Una svolta si verificò con la sesta edizione, nel 1970, quando la Mostra ribadì e rinnovò i suoi obiettivi programmatici: offrire materiale di studio e di valutazione critica del nuovo cinema; porsi come attivo centro promozionale di socializzazione del nuovo cinema. La conseguenza della prima indicazione fu che la Mostra prese a pubblicare per ogni film, o gruppo omologo di film, o rassegne retrospettive, altrettanti “Quaderni di documentazione” (ventuno nel 1970, nove nel 1971, tredici nel 1972, dodici nel 1973), con interviste, critiche, dichiarazioni, documenti, bibliografie e découpages desunti alla moviola, trasformandosi progressivamente in una casa editrice (solo alla fine degli anni Ottanta le pubblicazioni saranno affidate ad altri editori). Negli anni successivi infatti i Quaderni, molto richiesti da studiosi, critici e cinefili, raggiunsero una tiratura media di mille copie e divennero veri e propri volumi, come i quattro sul Neorealismo, quelli sugli anni Trenta, i due sugli anni Cinquanta.

A partire dagli anni Settanta, se nei programmi delle varie edizioni i film del ‘nuovo cinema’ hanno confermato la vocazione originaria della Mostra, le grandi retrospettive (dedicate per es. alla storia del cinema italiano, ad autori oppure a cinematografie nazionali e a movimenti) hanno attestato la nuova vocazione di studio, pur rispondendo sempre anche a un’esigenza politico-culturale: la retrospettiva dedicata alla Spagna nel 1977 è stata la prima del postfranchismo, quella del 1978 sulla Cina la prima nel mondo dopo la fine della Rivoluzione culturale. Gli anni successivi hanno esibito un’attenzione particolare alle tendenze dei vari Paesi: l’edizione 1979 della Mostra è stata dedicata al cinema degli Stati Uniti, quella del 1980 al cinema dell’Unione Sovietica, quella del 1981 al cinema dell’America Latina, quella del 1982 al cinema magiaro e iugoslavo, quella del 1983 al cinema asiatico, non solo cinese e giapponese ma, soprattutto, sudcoreano, filippino, indonesiano, malese, tailandese, vietnamita e di Hong Kong.

https://it.wikipedia.org/wiki/Mostra_internazionale_del_Nuovo_Cinema_di_Pesaro

Musica

Canzone di notte n.2

E un’ altra volta è notte e suono,
non so nemmeno io per che motivo, forse perchè son vivo
e voglio in questo modo dire “sono”
o forse perchè è un modo pure questo per non andare a letto
o forse perchè ancora c’è da bere
e mi riempio il bicchiere..

E l’ eco si è smorzato appena
delle risate fatte con gli amici, dei brindisi felici
in cui ciascuno chiude la sua pena,

in cui ciascuno non è come adesso da solo con sé stesso
a dir “Dove ho mancato, dov’è stato?”,
a dir “Dove ho sbagliato?”

Eppure fa piacere a sera
andarsene per strade ed osterie, vino e malinconie,
e due canzoni fatte alla leggera
in cui gridando celi il desiderio che sian presi sul serio
il fatto che sei triste o che t’annoi
e tutti i dubbi tuoi…

Ma i moralisti han chiuso i bar
e le morali han chiuso i vostri cuori e spento i vostri ardori:
è bello ritornar “normalità”,
è facile tornare con le tante stanche pecore bianche!
Scusate, non mi lego a questa schiera:
morrò pecora nera!

Saranno cose già sentite
o scritte sopra un metro un po’ stantìo, ma intanto questo è mio

e poi, voi queste cose non le dite,
poi certo per chi non è abituato pensare è sconsigliato,
poi è bene essere un poco diffidente
per chi è un po’ differente…

Ma adesso avete voi il potere,
adesso avete voi supremazia, diritto e Polizia,
gli dei, i comandamenti ed il dovere,
purtroppo, non so come, siete in tanti e molti qui davanti
ignorano quel tarlo mai sincero
che chiamano “Pensiero”…

Però non siate preoccupati,
noi siamo gente che finisce male: galera od ospedale!
Gli anarchici li han sempre bastonati
e il libertario è sempre controllato dal clero, dallo Stato:
non scampa, fra chi veste da parata,
chi veste una risata…

O forse non è qui il problema
e ognuno vive dentro ai suoi egoismi vestiti di sofismi
e ognuno costruisce il suo sistema
di piccoli rancori irrazionali, di cosmi personali,
scordando che poi infine tutti avremo
due metri di terreno…

E un’ altra volta è notte e suono,
non so nemmeno io per che motivo, forse perchè son vivo
o forse per sentirmi meno solo
o forse perchè a notte vivon strani fantasmi e sogni vani
che danno quell’ ipocondria ben nota,
poi… la bottiglia è vuota…

Cinema

Il mondo di Woody

Ma andiamo a questa nuova fatica di Escobar, “Il mondo di Woody” (Il Mulino, pag. 155, Euro 14). Intanto, sbaglierebbe chi pensasse al cineasta newyorkese come a un autore di commedie, e magari come a un comico, e Escobar lo spiega fin dal titolo, che potrebbe essere la traduzione del ben più impegnativo termine tedesco weltanshauung”; ma facciamo un passo avanti: quello che l’Autore disegna con continui, meticolosi riferimenti ai vari personaggi dei film di Allen, non è solo il mondo di un protagonista dello “showbiz”, bensì quello di una cospicua parte dei nostri contemporanei (e qui sta il richiamo del libro, che va oltre i gusti e gli interessi dei fan di Allen, come noto, più numerosi in Europa che non negli USA, “et pour cause”…).

 

Woody Allen, che nasce da una famiglia della piccola borghesia ebraica di Brooklyn (vero nome: Allan Stewart Königsberg), rappresenta il paradigma dell’uomo d’oggi, che si sente svincolato da scuole, tradizioni, appartenenze. In Woody però questa condizione è in qualche modo nobilitata dalla continua ricerca di verità che pure nega e di equilibri che pure teme. Nell’Autore brillante, capace di folgoranti aforismi, affiorano spesso l’angoscia della solitudine, del destino individuale e della personale collocazione nel mondo – il Piano, nel lessico di alcuni suoi personaggi – e la ricerca, azzoppata da uno scetticismo di fondo, di risposte alla questione del divino e dell’aldilà.

 

Escobar ricostruisce il percorso artistico di Woody quasi come in una seduta psicanalitica, e sappiamo quale ruolo abbia in Allen, questa disciplina, i cui echi si avvertono in molte pellicole, specie quando viene evocata la figura materna, vissuta come nume tutelare e insieme incapacitante (si veda “Radio Days”). Escobar mette insieme sfaccettature, battute e nomi di protagonisti e comprimari delle sue pellicole, secondo un metodo in qualche modo “obbligato”, perché in tutti i personaggi è inevitabile riconoscere il loro autore, un po’ come accade per gli eteronimi di Pessoa e come diventa evidente in “Zelig”, film dove la fisionomia del mutevole protagonista viene ricondotta ad unità proprio dalla sua vocazione proteiforme, di adattamento a questo o quell’interlocutore.

 

Punti di riferimento di questo percorso, che si ripete quasi fosse un esistenziale “gioco dell’oca”, sono la Donna, gli anni 20 del 900 – specie in Europa – il retaggio dell’ebraismo (sovente satireggiato, ma il debito verso l’umorismo yiddish è innegabile), il rapporto con Dio e con i codici morali. Spesso poi nei film di Allen viene messa in scena l’intersezione della realtà con la finzione cinematografica (esempio tipico: “La rosa purpurea del Cairo”) e ne derivano sovrapposizioni e intrecci del comico col tragico. In questa chiave, ad esempio, viene riproposto, in più di un film, il duello bergmaniano fra il Cavaliere e la Morte, quest’ultima nelle sue varie epifanie, da quella classica della tenebrosa figura con la falce a quella dell’angelo nero a quella del mostro assassino.

 

Dicevamo dei lasciti della cultura yiddish, specie nella declinazione mitteleuropea: da questa derivano certi approcci all’espressionismo e al teatro dell’assurdo alla maniera di Beckett e Adamov, evidenti, ad esempio, nel più volte citato “Ombre e nebbia”, il cui protagonista, l’Ometto, si trova a combattere, in un inquietante scenario notturno, contro un misterioso assassino, ma anche contro un “comitato” di cittadini benpensanti, che lo vogliono coinvolgere in avventurosi (e avventati) progetti di caccia all’uomo.

 

Altro “topos” della cultura europea presente in più di un film di Allen è lo specchio, variante dello schermo cinematografico, attraversabile in un senso o nell’altro, per farsi beffe – ancora una volta – della Morte, per ottenere una vittoria sempre illusoria, come nel mito di Sisifo. Troviamo però, nel ricco baule di Woody, anche cimeli che non ci aspetteremmo: ad esempio il pessimismo hobbesiano, che fa dire a un personaggio: “Nel profondo, l’umanità non è né buona né rispettabile”; ma di Hobbes manca ogni allusione al Leviatano, perché in Woody la politica resta sullo sfondo, ed è al massimo fonte di timori, come quando viene evocata la figura del capro espiatorio, che “solleva i linciatori dalle responsabilità del mondo, dei suoi guai, del suo veleno, e regala l’ebrezza di sentirsi uniti”. In tale panorama però non manca il riferimento all’”homo homini lupus” e il tono è quello di un nichilismo utilitaristico, venato di rancore e sensibile al desiderio; caratteristiche proprie, ad esempio, di Chris, il protagonista di “Match Point”, in qualche modo imparentato con il Raskolnikov di “Delitto e castigo”. E non sono pochi i personaggi di Allen che vedono il prossimo come insetti da schiacciare, magari per raggiungere un obiettivo meschino.

 

In molti personaggi, come abbiamo detto, ricorre il rovello dell’esistenza o meno di Dio, ma il risultato è sempre quello di un ateismo che nasconde le sue certezze e le sue debolezze dietro ragionamenti sofisticati, che poi sfociano in battute destabilizzanti. La vita è un film, insomma, e Dio ne è lo sceneggiatore (non da tutti ritenuto all’altezza…). Tali angosciose domande e le relative risposte, ambivalenti come quelle di un oracolo, attraversano tutta la filmografia di Allen, da quella in forma di commedia a quella in forma di dramma. C’è però una costante presenza divina in quei film, ed è quella del Caso, che non si limita a fare da “deus ex machina” per risolvere situazioni complicate, ed è indifferente alla morale, al discrimine fra giusto e ingiusto.

 

Così, sotto la patina del nichilismo, Woody mette a nudo l’angoscia del libero arbitrio, quello che contrappone, nell’io ragionante dell’Autore, la legge di un Dio lontano e quella di un sillogismo filosofico, la vanità delle opere e, al tempo stesso, la loro importanza (anche se poi spesso, dimostrano molti suoi personaggi, è l’istinto a decidere). Anche nel suo rapporto con le donne, il Woody di Escobar oscilla fra la foga dei sentimenti e il rimpianto di non essersi assoggettato alla loro legge. Ancora una volta, in definitiva, il destino dell’artista si snoda attraverso l’infelicità (come si vide, per limitarci ad un solo esempio, nel bel film di Claude Sautet, “Un cuore in inverno”). A noi però piace ricordare il Woody che scommette con Pascal (e se Dio esistesse?) o l’altro, che, su una panchina di “Manhattan”, elenca le dieci cose per cui vale la pena di vivere e, fra queste, “il sorriso di Tracy”.

Libri (di G. Del Ninno). I dubbi e l’arte di Allen ne “Il Mondo di Woody” di Escobar