scuola

Academia.edu

Giancarlo Maculotti

LETTERA DALLA SCUOLA TRADITA

Prima edizione – Armando Editore – Roma 2008

Seconda edizione riveduta ed ampliata: marzo 2016

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Sommario

Presentazione di Gigi Cortesip. 5
Una grande riforma Il miserabile paese degli aiutini e degli applausi ai funerali La scuola dei Draghi Colpevole indifferenza Sono venuto a mettere in discordia il figliolo con il padre… (Matteo 10, 35-37) Sesso ed educazione sentimentale Infilar la fede nei discorsi La pedagogia del lavandino Lettura e biblioteche scolastiche Prima che il buio copra tutto Non è un programma Il messaggio di Barbiana La motivazione Il maestro vale un fico Il bullismo La scuola al femminile La supplente sta in vacanza Dio me l’ha data e guai a chi la tocca I diplomifici Le responsabilità del sindacato La scuola italiana all’estero Dicesi commerciante Precariato La cultura del docente La scuola spiegata alla Mastrocola Laboratori intonsi L’insegnamento delle lingue straniere L’insegnamento della matematica Educazione Artistica, Tecnica, Musica Ambiente e curricolo locale L’era Gelmini Basta una pendrive La vera autonomia La febbre non cala? Rompiamo il termometro Il tempo pieno L’opzionalità Per un sano centralismo Finalmente la buona scuola. Ma la didattica? Milioni di Gianni Un’unica grande riforma Estratti di Recensionip. 9 p. 13 p. 15 p. 21 p. 26 p. 32 p. 38 p. 45 p. 48 p. 51 p. 56 p. 62 p. 67 p. 71 p. 74 p. 80 p. 82 p. 88 p. 91 p. 94 p. 97 p.100 p.106 p.110 p.113 p.117 p.122 p.127 p.132 p.134 p.138 p.141 p.143 p.147 p.154 p.157 p.161 p.164 p.167 p.169 p.173

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Presentazione

«Ragazzo» deriva dall’arabo ragias, che significa corriere,guida, messaggero. Se l’autorità sa accogliere il messaggero e ascoltare il messaggio, il ragazzo diventa discepolo, cioè colui che impara, ma soprattutto guida, cioè soggetto e fulcro della sua stessa educazione. Eppure gli insegnanti si lamentano del numero eccessivo di allievi. Non li capisco. Come se una bella donna si lamentasse di possedere un numero eccessivo di gioielli! Misteriosi messaggeri, prodigiosi messaggi, insospettate guide: questo sono i ragazzi. Più sono, meglio dovrebbe essere. Non chiedono che di venire accolti e ascoltati. Invece, quasi sempre si trovano di fronte anime di adulti, che non sanno stupirsi di fronte al mistero, né sanno abbracciare il prodigio, né lasciarsi guidare dalla novità.

Come potranno questi adulti essere autorità? «Autorità» deriva dal verbo augere, che significa far crescere, e dal suffisso -tor, che indica il ruolo, la professionalità. Come potrà far crescere questi prodigiosi messaggeri chi, senza essere lui per primo cresciuto, non è inquieto nei cammini, curioso nella ricerca, rapito dal nuovo, interrogato dall’assoluto? Chi indica più gli orizzonti? Chi si affaccia oltre le colonne d’Ercole dello scontato, del sicuro, del programmato? Forse nella scuola c’è non troppo precariato, ma troppo poco; non troppa insicurezza, ma troppo poca. Solo il precario chiede l’assoluto. Solo l’inquieto sa intuire i sentieri della quies, direbbe Agostino. Come può mostrare orizzonti e indicare strade la cultura del tramonto (questo significa «Occidente»)? Come può, allora, la scuola farsi luogo di stupore, ricerca, accoglienza, risposta? Come può essere riflessione e rifrazione, se nessuna luce illumina più le coscienze e le interiorità? Come può avvincere un libro, se nessuno lascia più intuire la dolce intimità del cuore, il sorriso del pensiero?

Se la scuola non è tutti questi interrogativi, si perde, conferma Illich, diviene sempre più auto­referenziale. E alla fine conta solo conservare il posto di insegnanti, bidelli, dirigenti, ministri; importa soltanto tutelare le garanzie sindacali, l’adeguamento ai programmi, la “produttività dell’azienda”. È il ragazzo dove è? Chi lo accoglie, chi lo ascolta, chi lo segue?

A psicoterapeuti e psichiatri capita sempre più spesso di avere come pazienti allievi, genitori, insegnanti, dirigenti e amministratori scolastici, forse anche ministri. A sentirli, pare proprio che non siano poche le personalità scompensate, fragili o gravemente disturbate che stanno, a vario titolo, nelle aule scolastiche. Non si riesce a capire come la scuola regga.

Moltissimi genitori sono ancora – prima di tutto – figli, con tanto di cordone ombelicale che li lega alle famiglie d’origine, impedendo loro di essere davvero coppia, di “sposarsi” davvero, di potere davvero essere genitori. La genitorialità è evento relazionale e gioco di squadra, non fatto individuale.

Ci sono insegnanti e dirigenti scolastici con gravi problemi psichici, con difficoltà relazionali, talora con disturbi di personalità, specie di tipo narcisistico (DNP). Non si sa come possano interagire con colleghi e allievi, né come possano insegnare o dirigere. Chi soffre di DNP, per esempio, è cieco nella empatia ed è manipolatorio nelle relazioni. Eppure – cosa molto preoccupante – molti di essi godono fama di essere “bravi e seri” nel loro lavoro. Viene il dubbio che gli artefici di tale fama abbiano problemi ancora più grossi o, cosa non rara, un atroce brama di masochismo genitoriale e pedagogico.

Come è possibile che nessuno se ne accorga e dica quanto la scuola può essere patologica e patogena? Perché si tace? Se, per esempio, come spesso accade, si dà il massimo dei voti a una allieva anoressica, di fatto si collude con la patologia, con il bisogno psicotico di difendersi e dimenticarsi nel rituale mnemonico dello studio, di evitare gli altri, il mondo, la realtà; e si collude con il bisogno della famiglia di non vedere il problema. Eppure, con le logiche attuali, non si può fare altrimenti. E che dire – caso non raro – di insegnanti, che, abusati da bambini, non hanno mai potuto o voluto elaborare terapeuticamente il loro abuso? Che cosa in-segneranno, cioè che cosa segneranno dentro i loro allievi, se ancora non hanno scavato e risolto ciò che ha cosi gravemente segnato la loro anima e la loro esistenza?

Quanto agli allievi, quasi sempre, più che essere loro il problema, sono vittime di genitori, di insegnanti, di strutture gravemente patogeni. Sono le vittime, e vengono portati in terapia come se fossero loro il problema. Ci sono genitori e istituzioni che chiedono aiuto a parole (quindi in perfetta, ma non

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certo sufficiente buona fede), ma che nei fatti hanno bisogno che il figlio o l’allievo sia un problema, sia “il” problema, così da non vedere che il vero problema sono loro.

Ben venga dunque un libro come questo, che si chiede quanto e come la scuola possa, voglia, sappia rispondere al compito che le è proprio. L’autore è un uomo di scuola a tutto tondo. È stato insegnante, è dirigente scolastico, è amministratore locale. È molto bravo, purtroppo non sarà mai ministro. Ha esperienza notevolissima, vede i problemi dal di dentro, con concretezza, è ben documentato, determinato. Vuole capire e risolvere. Non è solo un faber dell’insegnamento e della istituzione. È un saggio intellettuale, capace di sguardo ampio, anche dal di fuori, a grandangolo, interroga pure l’al di qua e l’al di là della scuola. Parte da fatti; con fatti pone problemi decisivi: il senso e l’esercizio della autorità e della educazione; il modo di motivare e preparare insegnanti e dirigenti; il senso e l’efficacia delle “riforme”; il ruolo dei sindacati; la funzione dei genitori; il rapporto famiglia-scuola; la relazione educazione-libertà e autorità-libertà. A che porta la scuola, si chiede, se “ci sono (…) dei laureati che si vantano di non avere più aperto un libro dopo la fine degli studi”? Leggere questo libro significa interrogarsi a fondo, ammettere che siamo “di fronte a una normalità patologica subita come ineluttabile”. Non sono pagine ansiolitiche e consolatorie; sono pro-vocazioni, cioè chiamano innanzi con chiarezza e realismo. Non possono non in-segnare chi le legge.

«Scuola» deriva dal greco scholé, che, a sua volta, si rifà al verbo echein, ‘avere’. La scholé era dunque quel tempo prezioso che porta ad avere sé stessi, così che l’avere coincida con l’essere. Non a caso l’equivalente latino di scholé è otium, cioè il tempo della libertà e della identità più vere e radicali. Provate ad andare a dire a un ragazzo d’oggi, che la scuola è il tempo della libertà e della identità; verificherete subito quanto lontana sia oggi dalle proprie origini la scuola. Invece, se si vuole, essa è il tempo della libertà e della identità.

Resta un dubbio. Se l’amore, la gioia e – con essi e in essi – la libertà e l’identità non possono essere dati, ma vanno conquistati, desiderati, amati, quasi rubati, giorno dopo giorno, attimo dopo attimo, come possono essere affidati alla scuola, se questa è un obbligo, stabilito per ideologia e per legge? Se è obbligo, poi per forza di cose tutto finisce, come nota l’autore, per essere “contrattato”: quando, come, chi interrogare; se fare o non fare un compito; quali materie portare all’esame; quante ore di aggiornamento degli insegnanti ci siano; che ruolo abbiano i genitori nella scuola; quando e come si diventi di ruolo; che cosa vada o non vada riformato; e così via.

La scholé presuppone il senso del cammino. Se una coppia, una società, una storia, una cultura non sanno dove vanno e perché esistono, che senso avrà mai l’auctoritas?

«Adolescente» e «adulto» derivano dal latino, dal verbo ad-alescere (da cui adolescere) ‘essere nutrito, crescere’, a sua volta risalente ad alere, ‘nutrire’, della cui azione indica l’avvio, e alla preposizione ad, che indica l’intenzionalità orientata: «adolescente» e «adulto», rispettivamente il participio presente e quello passato di ad-alescere, indicano quindi ‘colui che sta cominciando a crescere’ e ‘colui che ha già cominciato a crescere’. Quanti di noi – genitori, insegnanti, cittadini – sono veri adulti, hanno cominciato a crescere nell’amore, nella cultura, nella vita, negli stupori? Quanti di noi possono essere riferimento credibile per un adolescente, che solo ora sta cominciando a crescere e, come una timida lumachina, mette fuori dal guscio le sue piccole antenne? È l’immagine, cui ricorrono Horkheimer e Adorno in appendice a Dialettica dell’illuminismo, là dove parlano della stupidità come del callo prodotto quando le antenne sono puntualmente negate, ributtate indietro. O forse conviene a tutti che i ragazzi la smettano una buona volta di pro-vocarci, di essere i messaggeri di un mistero, di guidarci nel futuro? Perché non fanno i bravi? Perché non vogliono essere stupidi? Perché creano problemi a tutti noi, ministri compresi?

Se forse qualcosa manca a questo libro, è uno sguardo anche antropologico. Farò, perciò, qualche nota in questa ottica.

Per un adolescente la sfida con l’assoluto e con il problema della morte dovrebbe essere un diritto garantito e rispettato, così come dovrebbe esserlo quello dell’esperienza viva e confermata della propria

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unicità, tutta giocata tra la sistole della solitudine e la diastole dell’appartenenza. In molte culture, che noi ci ostiniamo a chiamare “primitive”, l’adolescente nel rito di iniziazione vive il riconoscimento e l’attuarsi di questi diritti così sacrosanti. Noi siamo la società e la cultura della rimozione della morte, della negazione di ogni confronto con essa; noi abbiamo abolito i riti di iniziazione, li abbiamo considerati una barbarie inutile e pericolosa. Invece sono parte sostanziale e irrinunciabile della evoluzione del ragazzo e della sua integrazione al gruppo sociale, al punto che, se non li dà la società, se li prende lui, se li gestisce in proprio, con logiche auto-referenziali necessariamente reattive e marginali, che – queste sì – comportano rischi gravissimi ed esiti antisociali o delinquenziali, spesso riversati nella scuola e contro la scuola, nella istituzione e contro l’istituzione. Sia che piombino nella implosione solitaria del suicidio o della rinuncia a vivere e ad affrontare la realtà, sia si esprimano nell’azione violenta e anche omicida del gruppo, spesso azioni, che parrebbero sfogo assurdo o raptus inspiegabile, sono figlie di una mancata risposta sociale e culturale al bisogno-diritto del giovane di sfidare la morte, di verificarsi e identificarsi anche di fronte alla estrema sfida, quella con l’assoluto (e dell’assoluto può essere figura proprio la morte). Solo dopo la sfida è possibile l’identificazione-rinascita del Sé e l’acquisita appartenenza culturale, sociale, istituzionale. È dovere sacro e compito inviolabile non della scuola, ma della società e della cultura trovare i modi, i tempi, i luoghi, i riti, attraverso i quali possa, debba, voglia essere rispettato il diritto alla sfida e alla identità profonda, che – sola – dice chi è l’adulto. Il problema non è pedagogico, tanto meno didattico, né compete alla scuola. Il problema è antropologico, e compete alla società complessiva e alla cultura.

Dunque, i riti di iniziazione non spettano alla scuola, anche se, in passato, alcuni momenti scolastici particolarmente difficili e altamente selettivi hanno avuto un’indubbia valenza iniziatica: per esempio l’esame di quinta elementare fino al secondo dopoguerra o quello di “maturità” fino a pochi anni fa finivano con il sancire l’accesso alla dimensione adulta e al riconoscimento sociale, che a questa compete. Oggi neppure con il dottorato di ricerca si giunge a tanto. Ripeto, alla scuola non compete questo compito; comporterebbe la riduzione della scuola a mero momento di formazione professionale e di avviamento al lavoro. Solo società e culture ideologicamente finalizzate ad assolutizzare il lavoro e la produzione possono giungere a tanto. Ma non si può neppure usare la scuola come alibi e strategia, per non fare mai divenire adulti, per imprigionare in una adolescenza stupida e senza fine; porterebbe la scuola – e già ne abbiamo i segni quotidiani – a essere complice e culla della ideologia della noia e della disperazione, quella che vorrebbe far vivere senza identità, senza interiorità, senza emozioni.

Il rito (o la prova) di iniziazione c’è e ci deve essere, perché il gruppo sociale ha bisogno di verificare (rassicurando sé stesso) e di confermare (rassicurando il giovane e l’azione formativa della sua famiglia) l’adeguatezza del giovane e della generazione nuova (il giovane in greco era chiamato néos, ‘nuovo’) a rispondere ai problemi radicali dell’uomo; come sopravvivere; come affrontare l’angoscia e la morte; come con-fluire nei valori sociali e culturali; quale mondo volere; quale destino scegliere per sé e per gli altri. Solo attraverso l’eseguirsi di questa verifica può continuare il cammino di una società e di una cultura. Ripeto, questa verifica non compete alla scuola o soltanto – perfino con attribuzione di colpe – alla scuola. Né la scuola deve prestarsi al gioco di essere il capro espiatorio, facendo male (né potrebbe essere altrimenti) ciò che la società e la cultura non fanno: selezionare e decidere chi è adulto e chi non lo è, chi cammina e chi si fa trascinare. Farlo significherebbe per la scuola divenire strumento ideologico e alibi di una società e di una cultura immobili.

Acculturare un ragazzo non significa dire e stabilire che è adulto. Solo un micidiale corto circuito tra senso accademico e senso antropologico di cultura, può portare alla confusione attuale. Sotto molte forme di bullismo, così come sotto altri terribili fenomeni tanto crescenti, quanto taciuti (l’aumento negli adolescenti dei suicidi, delle dipendenze, dei disturbi psichici, degli incidenti e delle performance mortali, della delinquenza, della non autonomia) c’è una mancata risposta al bisogno di iniziazione all’età adulta. Si va a sfidare la morte e a cercare l’unicità del Sé fuori dalla società e contro la società.

Sbaglia la scuola a farsene carico. È compito non suo. Soprattutto non è compito suo la assunzione e la gestione della autorità sociale e culturale. Se si fa carico di questo compito, finisce con l’essere l’alibi e la discarica delle impotenze sociali e culturali. Finisce con l’essere contro i ragazzi e contro il nuovo1,

1 Ha perciò ragione l’autore quando afferma che “è difficile essere autorevoli in una società dove ogni principio di autorità viene sistematicamente delegittimato”. Ma, a mio avviso, sbaglia quando conclude che “dei sistematici interventi repressivi vanno usati fin dalla nascita, abituando da subito al rispetto di norme di buona convivenza. Non vale la scusa che il piccolo non capisce. Se non capisce capirà, ma intanto rispetta gli oggetti e le persone perché i genitori glielo impongono. Ci

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provocando nei ragazzi una risposta simmetrica e spingendoli, di fatto, a vedere nella scuola il nemico e l’ostacolo.

Società e culture ferme, che non hanno più orizzonti da scoprire, sogni da inseguire, desideri da soddisfare, progetti da realizzare, perdono autorevolezza né sanno più in-segnare di autorità i giovani e, meno che meno, la scuola; finiscono con il negare ogni autorità e con il convincersi di non avere bisogno di alcuna autorità. Le anarchie nascono dalla immobilità delle società e delle culture. Si finisce così, di fatto, con il legittimare il permissivismo (nella scuola e non solo), per coprire la mancanza di autorità e di persone autorevoli a livello sociale e culturale. Si aboliscono le prove di iniziazione, le si considerano ostacoli e crudeltà inutili. E si finisce da un lato con il lasciare i giovani nell’indeterminato, nel vago della non identificazione di sé, nel vuoto emotivo ed etico, nell’assenza della curiosità e dello stupore, anche e soprattutto dello stupore d’amore; d’altro lato si lascia il gruppo sociale nella paranoia di fronte a tutto ciò che è nuovo e, in particolare, di fronte al giovane, soprattutto al più vivo, al più creativo, al più intelligente, a quello che può dare di più. Poi, di tutto questo, magari si dà colpa alla scuola. Dopo averle tolto autorità, la si accusa di non averla o di non saperla gestire.

Non è la scuola a dovere dare risposte di questo tipo. Deve essa stessa riceverle. Non da sé stessa, ma da tutti noi come società e come cultura in cammino. Occorre ribadirlo: il problema, prima che scolastico, è antropologico. Ma questo discorso spetta ad altri autori. Maculotti il suo l’ha già fatto.

Gigi Cortesi

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Una biblioteca scolastica

La presente esperienza è il fedele resoconto di un intero anno di prestiti bibliotecari nella sede staccata di un Liceo Scientifico con 5 classi (dalla prima alla quinta), 110 alunni, 17 insegnanti (ovviamente non tutti a orario pieno) in un paese che conta già una biblioteca comunale con circa 16.000 volumi.

Come tutti gli insegnanti sanno, quella del bibliotecario (anche se la legge 426/88 ne introduce la figura) è un’attività “volontaria”, di solito affidata all’insegnante di lettere, che dedica le ore di completamento del suo orario (supplenze permettendo) alla gestione della biblioteca ed al prestito librario.

L’introduzione dell’informatica (che però non è, di solito, nota all’insegnante di lettere) ha prodotto interessanti programmi per “aiutare” l’operatore bibliotecario nel suo compito; ma rimane sempre il grosso ostacolo della schedatura iniziale del patrimonio librario.

Nel caso in questione esso era così suddiviso:

1- narrativa straniera 144

2- narrativa italiana 219

3- classici della letteratura 19

4- poesia italiana e straniera 41

5- critica letteraria 227

6- storia della letteratura, linguistica 108

7- astronomia 19

8- matematica, fisica, chimica, informatica 98

9- biologia, medicina, antropologia 174

10- demografia, statistica 45

11- religione 27

12- psicologia, psichiatria, psicanalisi 26

13- pedagogia, didattica, politica scolastica 56

14- storia, economia, politica 315

15- filosofia, sociologia 178

16- cronaca e problemi contemporanei 45

17- latino 60

18- arte, fotografia, urbanistica, architettura 68

19- cinema, musica 61

20- teatro 70

21- francese 26

22- inglese 209

TOTALE 2235

Come si vede, un patrimonio di una certa consistenza, considerando le dimensioni dell’istituto, anche se non omogeneo, (come evidenzia meglio il grafico sottostante) visto che gli acquisti dipendono unicamente dalle richieste degli insegnanti (oltre che, naturalmente, dalle disponibilità finanziarie).

dotaazione libraria

Quello che si è fatto, per razionalizzare il prestito, è stato semplicemente riportarne i dati , oltre che sull’abituale supporto cartaceo, su un file di database, da cui abbiamo poi estratto le seguenti notizie.

Anzitutto il totale dei prestiti, in un anno scolastico, è stato di 232, suddivisi per classi secondo la seguente tabella

altri (insegnanti, ex-alunni) = 16

La evidente maggior concentrazione di prestiti nelle classi III e IV è dovuta al fatto che sono le classi in cui opera il bibliotecario, che coinvolge gli allievi in attività richiedenti l’uso della biblioteca.

Nel biennio, tradizionalmente, viene particolarmente richiesta la narrativa; mentre in quinta si cercano testi specifici per la preparazione dell’esame di maturità.

Più in dettaglio, il seguente grafico mostra la richiesta per generi, in valore assoluto e in percentuale (rapportata al totale della dotazione libraria):

prestito per generi

Agendo con criteri da “Auditel” si dovrebbe pensare a rafforzare i settori più richiesti, a scapito degli altri (la narrativa, insomma); mentre appare più “educativo” incoraggiare il “consumo” della saggistica, finalizzandolo però ad obiettivi di ricerca concreti.

Inoltre ci sono, anche all’interno delle categorie più apprezzate, libri mai richiesti, accanto ad altri più letti: estrapolando dalla nostra lista gli autori con più di tre preferenze, vediamo in testa Calvino, con 8 titoli; seguito da Asimov ed Eco, con 6; Dickens, con 5; Asor Rosa e Shakespeare, con 4; e una collana scientifico-tecnologica della Schaum, che, se si sommano i vari titoli, batte tutti gli altri.

Risulta abbastanza evidente, scorrendo i titoli, la rilevanza del “consiglio” dell’insegnante nella scelta del libro da leggere, ma non mancano casi (specialmente nel caso della letteratura di intrattenimento) di consigli tra allievi che si passano lo stesso libro, di solito all’ interno di una classe.

Nell tabellaa seguente sono riportati i “grandi lettori”, cioè quelli che haanno preso a prestito più di 3 libri:

SESSOClasseLibri
FIV7
MV4
MIV8
MIV4
MIII4
FIV15
MVI5
MIII5
FV14
MIV4
FIII4
FIV4
FIII5
FIII4
MIII4
FIII5
TOTALE 1696

Come si vede c’è una perfetta uguaglianza tra maschi e femmine; è presente un solo insegnante (il bibliotecario) e, ovviamente, la concentrazione per classi rispetta quella generale.

Da notare che queste 16 persone, da sole, hanno preso in prestito quasi la metà dei libri dell’anno (leggere meno, leggere tutti ?).

Infine un’ultima notazione riguardo alla durata del prestito, riassunta nel grafico sottostante:

durata del prestito

Come si vede la maggior concentrazione si ha entro il primo mese: ci sono casi di restituzioni brevissime, anche solo due giorni (presumibilmente in occasione di compiti in classe); il resto si distribuisce abbastanza equamente.

CONCLUSIONI

Chi fa uso delle statistiche di solito, oggi, lo fa per vendere meglio la sua merce; noi non crediamo che il libro debba esserlo (anche se sconfortanti segnali ci giungono dal mercato editoriale) e che la scuola, in questo caso, debba andare in controtendenza ripetto alla società.

L’inizio potrebbe essere:

  • che i professori sapessero dell’esistenza di una biblioteca scolastica nell’istituto in cui insegnano;
  • che sapessero usarla e farla usare.

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scuola, Società

Il danno scolastico

Come si diceva, il trionfo finale è stato celebrato con la riforma Berlinguer (2000). Me lo ricordo come fosse oggi quel periodo. Nelle scuole si scatenarono i fanatici squadristi sostenitori della riforma, attivisti progressisti della sinistra (in particolare della Cgil scuola) che aprirono una micidiale offensiva a tutto campo contro la scuola “tradizionale”. Era letteralmente impossibile discutere, la loro intolleranza raggiunse picchi impensabili fino ad allora. Se non condividevi le loro idee, con annessa neolingua, ti impedivano di parlare, ti strappavano i microfoni, i manifesti, ti ostracizzavano in tutti i modi possibili. Esprimere semplicemente dei dubbi sul loro verbo progressista rappresentava per questi una dichiarazione di guerra alla quale rispondere con tutti i mezzi necessari.
Ma quali erano gli assi portanti della riforma Berlinguer? Ricordiamoli. Progetti, valutazione, diritto al successo formativo.
Con i progetti si mettevano in ombra le materie curriculari. I progetti trasformarono la scuola in un’ “impresa” che “offre” all’“utenza” attività extrascolastiche. Nasceva il famigerato POF (Piano dell’Offerta Formativa), il menu, il dépliant pubblicitario che presentava alle famiglie (utenza) il prodotto-scuola. Scuole che dovevano muoversi nel mercato della formazione secondo ben precise strategie di marketing, tese principalmente all’accaparramento di quote di mercato, rappresentate dai ragazzini della terza media da invogliare (tramite le rispettive famiglie) a iscriversi in scuole tirate a lucido per la bisogna, e più iscritti maggiori finanziamenti. Iscritti, e famiglie, che diventavano utenti/clienti. E si sa che il cliente ha sempre ragione. Ecco svelato il mistero del “partito delle mamme” che incute timore nei dirigenti. Il “partito delle mamme” (i papà ahimè sempre meno presenti), feroce difensore dei propri pargoli, diventava il tallone di ferro della nuova scuola. E questo è il motivo del perché diventava sempre più inutile condurre un ragazzo maleducato, o che ti mandava a quel paese (o che ti diceva “ti sparo nelle gambe”, come successe al sottoscritto), alla dirigenza scolastica: tu docente hai torto per definizione, come minimo non hai saputo motivare lo studente… quindi come minimo ti meriti quel comportamento. Ed ecco spiegato il motivo di tanti (purtroppo) docenti che si adeguavano mogi mogi e lasciavano fare, tanto ormai… Tenendo presente che i progetti distraevano i docenti dall’insegnamento, per cui “paradossalmente” chi dedicava tutto il suo tempo a insegnare (retrogrado!) era penalizzato retributivamente rispetto a chi impiegava parti considerevoli del tempo lavorativo in suddetti progetti.
La valutazione. Diventava “oggettiva”. Bisognava cioè misurare le competenze acquisite in un esercizio, in un progetto, in un corso, in un’uscita didattica, tutto doveva essere misurabile, tutto doveva rispondere a precisi parametri definiti dal dipartimento disciplinare, secondo una rigorosa tabella, uguale per tutti gli insegnanti.
Ma la perla della riforma Berlinguer era il “diritto” alla promozione e ad arrivare fino in fondo al percorso della formazione. Per cui si cancellava definitivamente quel che rimaneva del dovere e della responsabilità. Se non studi è perché è l’insegnante che non ha saputo motivarti, o è la scuola che non ti ha offerto corsi di recupero adeguati, e se capita che ti bocciano questo rappresenta un chiaro fallimento della scuola. Il fatto che l’insegnante non sa motivare (succede pure) lo studente diventava la giustificazione della mancanza di impegno nello studio. E poi, non bisognava stressare i ragazzi, dare compiti a casa era caricarli di un lavoro eccessivo che toglie loro tempo di vita, bisognava programmare le interrogazioni, non interrogarli per più di una materia al giorno eccetera eccetera; insomma, insistere sul fatto che lo studio è impegno, è fatica, rendeva ostile l’ambiente scolastico agli allievi, che invece devono vedere nella scuola un’occasione di gioco, di incontro, di esperienze… per questo i progetti assumevano nomi strani, strampalati: Senza zaino, Scuola due punto zero, Classi aperte, Classe viaggiante, Cervelli ribelli, Scuola capovolta…
Facilitare, semplificare, azzerare la responsabilità, garantire il “successo” scolastico non hanno reso la scuola più “democratica”, non ha favorito i figli delle famiglie di ceto popolare (basta solo osservare i dati della “dispersione scolastica”), ha solo creato una divaricazione ancora più netta, di classe, tra le famiglie che dispongono di mezzi (non solo economici) di sostegno dei propri figli e famiglie che non dispongono di questi mezzi. La cultura progressista ha creato le premesse di un abbassamento del livello di apprendimento e di conoscenza, ha demonizzato gli insegnanti che si sono opposti all’abbassamento dell’asticella, o semplicemente contrari a rilasciare falsi attestati.

estratto da https://www.ariannaeditrice.it/articoli/la-scuola-progressista-e-dannosa-e-profondamente-classista

scuola

Il dirigente scolastico

Il dirigente scolastico è la chiave di volta della scuola dell’autonomia: l’elemento portante del lavoroe delle attività di un istituto scolastico e insieme il punto di equilibrio dei diversi fattori e forze cheagiscono al suo interno.Dalla riforma Berlinguer del 1999 – da quando, cioè, la scuola italiana ha abbandonato almeno sullacarta il modello centralistico, imperniato sul ministero di Viale Trastevere, per passareall’autonomia dei singoli istituti scolastici garantita nel titolo V della Costituzione – al dirigentespettano compiti cruciali per il funzionamento della scuola: la programmazione dell’offertadidattica, la gestione delle risorse umane e finanziarie, l’amministrazione dei conti e il bilancio.Come spesso succede in Italia, in questi quindici anni la pratica dell’autonomia non ha pienamentecorrisposto alle intenzioni del legislatore: ad esempio, la possibilità di un 20% di flessibilitàdell’offerta formativa a disposizione dell’istituto è stata raramente utilizzata a fini innovativi; irapporti fra dirigente scolastico e collegio dei docenti non sono sempre fluidi; la carenza di risorsefinanziarie ha limitato la possibilità di formazione e innovazione didattica. Soprattutto, l’autonomiascolastica in Italia è stata fino a oggi monca, perché non è mai stata autonomia di scelta delle risorseumane, arrestandosi sulla soglia della possibilità di selezionare i docenti più adatti alle esigenze dellascuola. Il dirigente scolastico rimane comunque il perno su cui ruota il meccanismo difunzionamento della scuola: nella recente riforma della Buona Scuola (legge 107/2015), gli sono statiattribuiti alcuni timidi poteri di scelta (si badi, poteri di scelta dei docenti a cui proporre di lavorarenella propria scuola, non di assunzione) e d’ora in avanti il suo operato sarà sottoposto al giudizioespresso da un sistema di valutazione. Quest’ultimo dovrebbe vedere la luce prossimamente, ma peril momento non è stato ancora definito nei suoi contorni e nei contenuti.In generale, sul nuovo ruolo del dirigente (il “preside-manager”) si sono scritti fiumi di inchiostro esi sono accesi feroci dibattiti, di certo sproporzionati ai contenuti effettivi della legge 107: da un lato,si teme che le capacità gestionali ed educative dei dirigenti italiani siano inadeguate a sostenere inuovi compiti, come pure si paventano autoritarismi ed eccessi di arbitrio da parte loro; dall’altro, siritiene che un ruolo rafforzato del dirigente, sull’esempio anglosassone, sia necessario per spingeretutti i docenti – o almeno la maggior parte di essi – a remare nella stessa direzione per una scuolapiù moderna ed efficace, smuovendone nel caso le inerzie corporative.

Fondazione Giovanni Agnelli
Massimo Cerulo
Gli equilibristi
La vita quotidiana del dirigente scolastico: uno studio etnografico
in
scuola

Progetto Brocca

Il progetto Brocca è una sperimentazione esaurita alla cui prima classe è stato possibile iscriversi sino all’anno scolastico 2009-2010; A partire dall’anno scolastico 2010-2011 è infatti iniziata l’applicazione dei nuovi quadri orario. Gli ultimi studenti iscritti al progetto Brocca si sono diplomati nell’anno scolastico 2013-2014.

Ormai lo trovate solo su Wikipedia, ma varrebbe la pena riprenderlo se qualcuno volesse mettere mano alle disastrose condizioni della scuola italiana!

https://it.wikipedia.org/wiki/Progetto_Brocca#Liceo_socio-psico-pedagogico_Brocca

scuola

Scuola online

Dalla notte dei tempi si sa che il valore della scuola sta nel dialogo verticale e orizzontale che si crea fra studenti e docenti, che non si tratta solo di fare entrare in testa delle nozioni, ma di suscitare una cultura e una capacità critica attraverso lo scambio e questo è tanto più vero quanto più si avanza negli studi. So benissimo di aver imparato di più dalle notti passate a leggere Kant o Marx o Schopenhauer o Nietzsche insieme ad amici che da tutte le lezioni messe assieme. Eppure entrambe le cose erano strettamente legate, impossibili le une senza le altre.  La scuola “per corrispondenza”, dove ognuno  è isolato fa perdere completamente questa dimensione lascia il posto al vuoto diplomificio: il Cepu, versione degradata della glorioso  è  dunque il modello ideale, tanto più che on line non si sa bene come poter giudicare la preparazione degli allievi, la loro crescita i loro problemi o le loro caratteristiche di apprendimento per la scuola privatissima di recupero per asini  è l’ideale. Non bisogna pensare a un incidente di percorso virale perché il declino dell’insegnamento in Italia è stato rapido e impressionante: dalle università esce gente che non sa nemmeno esprimersi in un italiano corretto e che possiede un universo cognitivo simile a quello del dado con l’acqua calda, rispetto al brodo lentamente sobollito: lì per lì può sembrare la stessa cosa, ma si tratta di due cose incomparabili. Se volessimo descrivere la situazione nella sua orribile realtà credo che non ci sia miglior esempio di quel corso universitario in cui 21 studenti si 49 non hanno saputo risolvere un esercizio  preso da un sussidiario per la quarta elementare del 1905. Sospetto che i bocciati siano poi diventati Sardine, gente così profondamente vuota e incolta da pensare di essere supremamente acculturata. Oddio è anche vero che alla Stanford University si è scoperto che il 78 per cento degli studenti di ingegneria non aveva capito il principio di Archimede, quindi non capiva perché una nave galleggia e non affonda, anche se sapeva applicare le formule matematiche del caso.

Ma qui ci saldiamo ad un altro discorso: quegli studenti di ingegneria che non erano in grado nemmeno di esclamare “iurika”, come certamente leggerebbero il greco antico di Siracusa, sono il risultato di un contesto culturale dove è preponderante la parte pragmatico – algoritmica dell’istruzione che non coincide con la comprensione, ma con la competenza e l’abilità funzionale. Non sono dunque pesci fuor d’acqua, ma lo siamo noi che da decenni non riusciamo ad esprimere alcuna soggettività culturale e ci limitiamo a scimmiottare ciò che viene dall’altra parte dell’atlantico e che è poi all’origine del declino occidentale. Per questo è ormai inutile avere qualcosa che vada oltre il Cepu: pochissima spesa, esami pro forma, tutti promossi, insegnanti pagati pochi euro. E del resto anche questo abominio  lo vuole l’Europa delle oligarchie: una trentina di anni fa la commissione europea redasse un rapporto poi diventato linea guida in cui si sosteneva che “Un’università aperta è un’impresa industriale e l’insegnamento superiore a distanza è una nuova industria. Quest’impresa deve vendere i suoi prodotti sul mercato dell’insegnamento permanente”. Vogliamo forse negare che da questo punto di vista il Cepu sia effettivamente qualcosa di avanzato rispetto ai secolari atenei o alle scuole dove gli insegnanti tentano di aprire le menti degli alunni? Già da molti anni spendiamo per l’istruzione molto meno degli altri Paese europei, ad accezione di Slovacchia e Bulgaria, quindi non dobbiamo sorprenderci se la pandemia è ora il pretesto ottimale per cominciare a chiudere definitivamente baracca e burattini del vero insegnamento pubblico e dunque anche della democrazia.

estratto da https://ilsimplicissimus2.com/2020/06/04/la-vittoria-del-cepu/

scuola

Leggere e scrivere

La mia bambina frequenta la I elementare. La sua è una scuola dove tengono particolarmente all’insegnamento della calligrafia. Qualche giorno fa, la mia piccola mi chiede se ricordo come si scrivono la “H, la K e la X. Maiuscole e corsive”. Al che dunque il mio orgoglio “scolastico” si è risvegliato. “Sono una persona che ha studiato, sono laureata e tra i miei studi annovero il geroglifico egiziano, ti pare che non mi ricordi come si scrive in corsivo italiano?! Adesso prendo carta e penna e faccio tutto..” E invece all’atto pratico mi sono ritrovata a guardarlo, quel foglio bianco, ma soprattutto a non rammentare come si scrivessero queste benedette lettere in maiuscolo corsivo😂. Naturalmente ho chiesto “ripetizioni ” alla mia Lucrezia che con estrema diligenza mi ha insegnato anzi “ricordato” come si facessero, ma soprattutto quanto fossero belle le parole scritte a mano. Morale della favola: ragazzi torniamo a scrivere. Con carta e penna! Scriviamo cartoline, biglietti di auguri, liste della spesa o lettere d’amore. Ma facciamolo con la biro in mano, stiamo perdendo la calligrafia. Patrimonio dell’umanità. Arte senza tempo. Non ci rimbambiamo con questi smartphone del cavolo. Non uccidiamo millenni di cultura!❤️

Monica Picchi da Facebook

lavoro, scuola, Società

Scuola e lavoro

A suo tempo (1994) facemmo una ricerca per conto del comune di Bondeno:

Non mancano altre opere (alcune citate in questo lavoro) che trattano di scuola e occupazione; ma nessuna si incentra in modo specì-fico sul territorio di Bondeno. Ora, se è vero che il problema dell’occupazione, così come quello scolastico, hanno le loro radici nella realtà nazionale è anche vero che, di fatto, i giovani frequentano le scuole più vicine al loro luogo di residenza e (come dimostra la ricerca) ambiscono ad un lavoro che non li sradichi dal loro ambiente. In questa situazione avere un quadro il più possibile dettagliato dell’offerta scolastica e occupazionale (spesso solo superficialmente conosciuta) della propria zona risulta di fondamentale importanza per evitare scelte che portino all’abbandono scolastico o ad un affollamento in settori lavorativi già saturi. Questo è tanto più vero di questi tempi, in cui ricorre spesso la parola “flessibilità” che richiede una preparazione culturale e tecnica sempre meno legata a curricoli “lineari”. Che si voglia o meno accettare questa sfida e i suoi presupposti, una politica di “orientamento” è necessaria, e ogni strumento che aiuti la componente scolastica e quella occupazionale a conoscersi meglio reciprocamente non può che favorirla.
E in quest’ottica che l’Amministrazione Comunale si è mossa, contribuendo in maniera determinante alla pubblicazione di questa ricerca, che si rivolge non solo a enti e associazioni di settore, ma anche al privato cittadino desideroso di conoscere meglio la realtà in cui vive.
COMUNE DI BONDENO Assessorato P.l.

ne trovate breve estratto al link

https://it.scribd.com/document/369347507/Capitolo-III

Se a qualcuno interessano grafici e tabelle posso renderle disponibili su dropbox.

scuola

Dibattito sulla scuola

Il dibattito sulla scuola, che attrae di solito molta meno attenzione di quanto meriterebbe, si è arricchito di recente di un interessante contributo di Ernesto Galli della Loggia (L’aula vuota. Come l’Italia ha distrutto la sua scuola, Marsilio, 2019), che è allo stesso tempo un saggio abbastanza documentato sulla storia della crisi della scuola italiana e un pamphlet in cui le idee dell’autore sul tema (ma anche sulla politica italiana e sulla cultura in generale) sono esposte con il consueto vigore..

 

Tra le tesi esposte in questo libro condivido innanzitutto ’ l’affermazione   del ruolo centrale svolto dalla scuola nella vita degli Stati in generale e, in particolare, ’ postunitaria. Scrive Galli della Loggia (p.14):

[…] nei decenni successivi all’Unità, mentre l’analfabetismo veniva sia pur lentamente riducendosi, furono essenzialmente l’istruzione superiore e l’università a fornire alla giovane nazione le élite necessarie alla sua crescita. E fu così che, già dalla fine dell’Ottocento, l’Italia poté contare su ottimi ingegneri, matematici illustri, filologi, medici ed economisti di vaglia. Le prime reti moderne che si videro nella Penisola – quella ferroviaria e quella dell’elettricità – furono realizzate in larghissima misura da persone formatesi nella scuola italiana.

 In questo brano sono implicitamente individuati due fini della scuola: ’ e trasmissione di competenze tecniche utili nel lavoro e la formazione delle élite.

Galli della Loggia sottolinea però giustamente che la scuola deve innanzitutto e soprattutto avere un altro fine: preparare alla vita, dotando i giovani (tutti i giovani per i quali è possibile farlo) di una cultura generale che permetta loro di uscire dalla propria particolarità e di mettersi in relazione con il mondo passato e presente, con tutti i suoi pensieri, i suoi protagonisti e i suoi fatti, raggiungendo così una pienezza di vita altrimenti impossibile (p. 12).

Condivido pienamente anche il giudizio sullo  stato disastroso della scuola italiana. Credo che chiunque abbia avuto modo di confrontare le conoscenze di chi oggi arriva  all’università  con quelle degli studenti di alcuni decenni fa non possa non avere verificato un terribile regresso culturale. La scuola italiana non solo non è più in grado di formare le élite (credo che il livello dei dibattiti parlamentari lo mostri ampiamente), ma non assicura alla grande maggioranza di chi termina gli studi secondari né un minimo di alfabetizzazione scientifica né la capacità di inquadrare gli eventi nel tempo e nello spazio e neppure una ragionevole padronanza della madrelingua.

Di fronte a questo disastro, occorrerebbe che  l’opinione pubblica, e in particolare gli intellettuali, dessero vita a un serio dibattito al fine di individuare possibili rimedi. Va quindi respinta con forza – ecco ’altra tesi importante del libro –  purtroppo oggi vincente, che sia di pertinenza esclusiva di un gruppetto di addetti ai lavori. Non esiste un tema di interesse più generale e meno specialistico della scelta degli strumenti culturali da trasmettere alle prossime generazioni (anche se, naturalmente, possono essere utili specialisti di pedagogia per decidere come farlo nel modo più efficiente). Galli della Loggia descrive con efficacia la deriva burocratico-pedagogica che ha ridotto la scuola nelle miserevoli condizioni attuali. Già altri, in molte occasioni, hanno descritto  del crescente carico burocratico degli insegnanti e il linguaggio incomprensibile e insensato usato dai burocrati ministeriali, ma in questo libro si viene a conoscenza di esempi nuovi, che superano  le già nere aspettative del lettore

Contro la Pedagogia,  la pseudo-scienza che sforna conformisti