politica

Wetpolitik

Weltpolitik. La continuità economica e strategica della Germania

Autore Giacomo Gabellini

Collana Storia

Prezzo ebook 6,99 € | cartaceo 14,99 €

Descrizione

Deutchland, un nome che suscita timore e rispetto.
In effetti la Germania è un Paese strutturalmente problematico; situata nel cuore geografico dell’Europa, essa appare allo stesso tempo “troppo grande per essere amata e troppo piccola per essere temuta”, per parafrasare una celebre espressione del cancelliere Helmut Schmidt. Questi fattori critici che caratterizzano la Patria di Goethe hanno sempre esercitato una pressione fortissima sui delicati equilibri europei in ragione del loro combinarsi con ambizioni di tipo imperiale, una crescita industriale assolutamente straordinaria e con una spiccata vocazione mercantilista.
Weltpolitik si propone di ricostruire la storia tedesca degli ultimi due secoli mettendo in luce la straordinaria continuità economica, geopolitica e strategica che caratterizza l’approccio della Germania verso il resto del mondo.

Autore

Giacomo Gabellini (1985) è ricercatore di questioni economiche e geopolitiche. Collabora con il quotidiano telematico “L’Indro“ e con il giornale cinese “Global Times”. È stato redattore di “Eurasia”, rivista di studi geopolitici. È inoltre autore di numerosi volumi, tra cui Ucraina. Una guerra per procura (Arianna Editrice, 2016), Israele. Geopolitica di una piccola, grande potenza (Arianna, 2017) e Burro e cannoni. Le radici economiche della potenza statunitense (Zambon, 2019).

filosofia, politica, Società

La Fabian society

Secondo l’opinione dell’autore: “Le grandi svolte della Storia arrivano senza preavviso per la gente comune. Ci si trova di colpo catapultati dentro a cambiamenti inimmaginabili fino al giorno prima. Cambiamenti sconvolgenti come quelli legati all’avvento dell’epidemia da coronavirus. Eppure queste svolte vengono pianificate con cura e per lungo tempo da alcuni circoli elitari. Società politiche all’interno delle quali la vera classe dirigente studia il futuro e cerca di determinarlo, disegnando tutti i possibili scenari, al riparo dalle piccole ‘beghe di palazzo’ o dalle competizioni elettorali. Uno di questi circoli, forse il più importante e meno conosciuto in Italia, è l’anglosassone Fabian Society. Ci siamo determinati a scrivere questo libro perché la realtà che stiamo vivendo è vicinissima, quasi coincidente, a quella progettata dai fondatori della Fabian Society. Questo libro ha due obiettivi. Il primo è quello di delineare il pensiero politico della Fabian Society attraverso alcuni cenni storici e verificando quali sono gli attuali uomini e donne di potere che le afferiscono. Il secondo è di analizzare come e quanto la visione del mondo dei Fabiani coincida con quell’epocale tornante della Storia nel quale ci è toccato di vivere: la drastica svolta autoritaria imposta al mondo occidentale attraverso l’utilizzo politico della vicenda Covid-19. Indicheremo per nome e mostreremo le azioni di quei politici italiani legati alla tradizione Fabiana che stanno sconvolgendo le nostre vite. Denunceremo la manipolazione che sta dietro alla narrazione terroristica del coronavirus, la gravità dei ricatti legati alla campagna vaccinale e le conseguenze sociali ed economiche di quanto sta accadendo. Proveremo ad individuare gli obiettivi di questo governo emergenziale della epidemia e constateremo quanto questi coincidano, in modo inquietante, con quelli, totalitari e antidemocratici, dei primi pensatori Fabiani.”


La Fabian Society e la pandemia. Come si arriva alla dittatura
autori, politica

Franco Ferrarotti

Professore emerito di Sociologia all’Università di Roma La Sapienza, diret­tore della rivista La Critica sociologica, deputato indipendente al Parlamen­to italiano dal 1958 al 1963, è stato tra il 1948 e il 1960 tra i più stretti col­laboratori di Adriano Olivetti. Insignito del premio per la carriera dall’Acca­demia nazionale dei Lincei nel 2001 e nominato Cavaliere di gran croce al merito della Repubblica nel 2005, per EDB ha pubblicato di recente: Scienza e coscienza. Verità personali e pratiche pubbliche (2014), Elogio del piroma- ne appassionato. Lettura e vita interiore nella società digitale (2015) e Al San­tuario con Pavese. Storia di un’amicizia (2016).

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Solidarietà e civiltà

In tempi in cui è sferrato un massiccio attacco al nostro paese non è inutile proporre una delle prime opere di Ardigò che ne recupera le dimenticate origini cristiano sociali

Gramsci ha scritto che « il cattolicesimo democratico… amalgama, ordina,vivifica e si suicida». Secondo l’autore di questo libro tale opinione ri­schia. dopo quasi un sessantennio, di avere valore predittivo se i cat­tolici non riscoprono, oltre la mediazione politica per lo Stato democra­tico. il senso del loro impegno iniziale, ma non integristico né difensivo, nella società civile e nella cultura.

In questa chiave, il pensiero e l’opera di Giuseppe Toniolo, con speciale attenzione al periodo della « grande depressione economica » della fine dell’Ottocento, vengono « rivisitati ». La teoria del primato della ri­forma sociale, e della società civile, sulla politica, in vista di una nuo­va cristianità, esposta dal maggiore interprete del pontificato di Leone XIII. viene messa a confronto, dall’Ardigò, con le principali posizioni contemporanee dei cattolici circa il rapporto fede-politica. E ciò proprio mentre da parte marxista si è scoperto il primato della politica.

Un antologia di saggi programmatici, e una scelta di dieci lettere del Tomolo, il riconosciuto teorico dei cristiano sociali italiani, nonché la ‘ stampa di un dimenticato saggio di Alcide De Gasperi, sul Toniolo e il suo tempo, completano il volume.

ACHILLE ARDIGO’: opere sociologiche da lui composte e curate : « Introduzione alla a sociologia del ’welfare state’» (1977), ■ Classi e strati nel mutamento culturale» (1976). «Famiglia e industrializza­zione» ;1976). «La stratificazione sociale» (1975).È stato tra : promotori e relatori del convegno nazionale ecclesiale su • Evangelizzazione e promozione umana» (1976).

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Governo Virale

«Un organo non può vivere senza un organismo, non si può quindi curare il primo sopprimendo il secondo. All’atto pratico, strabilia la pretesa di evitare un rischio producendo una valanga di rischi incalcolabilmente peggiori, anche dello stesso tipo. Se la malattia che si teme oggi colpisce una parte della popolazione con esiti gravi in una parte dei casi, la devastazione antropologica con cui la si vorrebbe frenare colpisce tutti: nella salute psichica minata dal terrore, nella sussistenza, nell’accesso ai servizi e nello sfregio delle funzioni umane più elementari». [Dalla prima parte]

«In questo modo si verifica una vera e propria inversione di mezzi e fini: da una parte la sfera politica si è, come abbiamo detto, trasformata1 in tecnica, ovvero qualcosa che necessita di “esperti” per poter essere padroneggiata; dall’altra, il dogma scientifico, imposto politicamente, detta la linea al dominio politico. È un gioco di specchi e di ombre nel quale quest’ultimo decide cosa sia lecito definire “scienza” e quali possano essere gli «scienziati che possono rappresentarla ed essere, quindi, parte di questa novella e secolare “congregazione per la dottrina della fede”». [Dalla seconda parte]

«Nel dibattito pubblico di questi ultimi mesi, anche in quello che ha specificamente coinvolto i giuristi, si è dato per scontato che il diritto alla salute si sia visto riconosciuto un primato su tutti gli altri diritti costituzionali… Penso, invece, che occorra una maggiore prudenza… Evocando il lessico di un noto saggio schmittiano del 1960 la stessa Corte costituzionale ha affermato che “Tutti i diritti fondamentali tutelati dalla Costituzione si trovano in rapporto di integrazione reciproca e non è possibile pertanto individuare uno di essi che abbia la prevalenza assoluta sugli altri. La tutela deve essere sempre “sistemica e non frazionata in una serie di norme non coordinate ed in potenziale conflitto tra loro” (sentenza n. 264 del 2012). Se così non fosse, si verificherebbe l’illimitata espansione di uno de diritti, che diverrebbe “tiranno”». [Dall’appendice dell’avv. Francesco Maimone]

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Teoria della dittatura

Fonte: L’Opinione

Michel Onfray con questo saggio ci offre una “nuova” concezione della dittatura, che non è quella classica del secolo XX, in cui il termine era usato (soprattutto) per designare il totalitarismo, ma è la dittatura mascherata, con parecchi punti di contatto con il dispostismo mite descritto da Tocqueville in un celebre passo della Democratie en Amérique (2,4,6).
L’autore si pone il problema se la società attuale sia veramente libera, o almeno, abbia fatto negli ultimi decenni progressi verso la libertà. Per rispondere a questi interrogativi usa criteri desunti dalle due opere di Orwell più note: 1984 e La fattoria degli animali, in cui il romanziere inglese descriveva i totalitarismi del XX secolo: nazismo e comunismo. Da queste, Onfray desume sette “comandamenti” idonei a demolire le libertà e realizzare una dittatura: distruggere la libertà, impoverire la lingua; abolire la verità; sopprimere la storia; negare la natura; propagare l’odio; aspirare all’impero.
Ai comandamenti seguono i “principi” che ne sono le deduzioni conseguenti, come Praticare una lingua nuova, Usare un linguaggio a doppia valenza, Inventare la memoria, Cancellare il passato, Creare la realtà, e così via.
Comandamenti e principi che si trovano, per lo più, sia nei totalitarismo del Novecento che nell’Europa di Maastricht, qui ovviamente in versione soft. Una particolare attenzione l’autore da alla comunicazione: Orwell in 1984 aveva descritto una società in cui il potere era esercitato prima che con la coazione, con un raffinato stravolgimento del legame tra realtà e rappresentazioni verbali. La neolingua è finalizzata a ridurre il pensiero “il potere sulle cose passa per il potere sulle parole”. La stessa riduzione dei vocaboli, la semplificazione della grammatica e della sintassi riducono le possibilità di un pensiero diversificato ed analitico. Ancor più se i termini sono (volontariamente) equivoci. Si arriva così a creare una realtà immaginaria: la realtà non ha un’esistenza autonoma, indipendente dal soggetto: è un prodotto della coscienza del soggetto che “le fornisce senso, vita e verità”. Continua Onfray, “una metafisica di questo tipo è estremamente interessante dal punto di vista politico… Se la realtà è solo quello che la coscienza le permette di essere, basta agire sulle coscienze per produrre la realtà che si desidera. In ambito di realtà, ciò che è, è soltanto ciò che si trova dentro la coscienza, quindi dentro la testa del soggetto. Grazie all’educazione delle coscienze, il potere potrà allora produrre la realtà che più gli conviene”.
Ovviamente per far questo occorre “non credere a quello che si vede o a quello che si sente;… credere soltanto a quello che il Partito sostiene”. Ossia la scissione tra rappresentazione verbale e realtà serve a corroborare l’esercizio del rapporto di comando-obbedienza, quindi a creare consenso al potere. Più consenso significa usare meno la forza.
L’autore riporta le frasi di uno dei personaggi di 1984, l’intellettuale-dirigente del partito. Questi racconta al protagonista “Tu credi che la realtà sia oggettiva, esterna, che esista di per sé. Credi anche che la natura della realtà si riveli da sé… Ma, Winston, ti assicuro che quella realtà non è esterna…(esiste) soltanto nella mente del Partito, che è collettiva e immortale. Ciò che il Partito considera la verità è la verità”. Anche la storia è vissuta e percepita in 1984 attraverso il ministero della Verità, solo in funzione del presente e in quanto serve al potere: il passato è riscritto per le esigenze contingenti del partito.
Nella conclusione l’autore sostiene “Chi può dire, oggi come oggi, di non essere d’accordo sul fatto che il ritratto del totalitarismo abbozzato da Orwell sia quasi un affresco dei nostri anni? Anche oggi, in effetti, la libertà è difesa male, la lingua messa sotto attacco, la verità cassata, la storia strumentalizzata, la natura bypassata, l’odio incoraggiato e l’imperialismo in marcia”. Il culto votato oggi al progresso è un “progressismo nichilista”, una marcia verso il nulla: e Onfray enumera tutti i sintomi che riconducono ai “comandamenti” di Orwell la situazione attuale, tra cui la moralina, concetto di Nietzsche il cui “nome rimanda, da una parte alla morale” e dall’altra agli stupefacenti, la quale “contamina queste stesse fonti con un manicheismo capace solo di opporre il bene al male, i buoni ai cattivi, il verso al falso, l’informazione all’intossicazione”. In un mondo siffatto il “progresso” consiste “nel mobilitare la scuola, i media, la cultura e il web per fare propaganda… nel nascondere il vero potere e nello sviare altrove l’attenzione… consiste infine nel governare senza il popolo, contro il popolo e nonostante il popolo”.
Ossia nella mistificazione di un potere il quale diffonde un conformismo di massa per esercitare il dominio (detto nella vecchia lingua) o la governance, come si esprimono, nella neolingua, le classi dirigenti. Ma come possa ciò salvarci dall’evidente decadenza in cui sta sprofondando lentamente l’Europa e, più in fretta, l’Italia, non è dato comprendere. Anzi è (il frutto e) la derivazione, nel senso di Pareto, di questa stessa decadenza.

(*) Michel Onfray, Teoria della dittatura, Ponte alle Grazie 2020, pp. 219, 16,50 euro.

politica, Società, sociologia

Comunità

Fonte: Il giornale del Ribelle

Io penso da tempo, e di questa cosa sono sempre più convinto, che una delle nuove contrapposizioni e dicotomie (eliminate ormai le logore “destra e sinistra”) dovrebbe essere quella tra “società” e “comunità”. Di primo acchito parrebbe una banalità ma non lo è, perché è immensa la confusione sotto il cielo e troppo spesso accade che i due sostantivi vengano presi, generalizzando parecchio e creando così una confusione ancor maggiore, come sinonimi. Nulla di più sbagliato, nulla di più pericoloso da pensare. Società e comunità non sono sinonimi ma antonimi. Buona cosa sarebbe recuperare il pensiero di un grande sociologo tedesco del XIX secolo, che nelle sue opere non fu mai troppo tenero con la Modernità: parlo di Ferdinand Tonnies e della sua opera magistrale intitolata “Comunità e Società”. Tonnies -nato nel 1855, morto nel 1936- scrisse questo trattato verso il 1888 e fu scritto guarda caso per superare un’altra contrapposizione che all’epoca veniva sentita come superata, quella cioè tra organicismo (società organica) e contrattualismo. Eliminando alla base questi due concetti, Tonnies introdusse la contrapposizione tra Società (in tedesco, Gesellschaft) e Comunità (Gemeinschaft) come uniche grandi organizzazioni sociali umane.

I pensatori auspicati nell’articolo ci sono stati, ma sono stati ignorati, come dimostra questo libro uscito solo a dicembre 2019

politica

L’agonia di una civiltà

Fonte: Italicum

 

Intervista ad Adriano Segatori, autore del libro “L’Europa tradita e l’agonia di una civiltà”, Ad Maiora 2020, a cura di Luigi Tedeschi

 

1) Con l’avvento della modernità si affermò l’eurocentrismo, il primato cioè scientifico, politico e culturale dell’Europa nel mondo. Tuttavia la modernità, di matrice illuminista ed empirista,  comportò l’erosione progressiva delle radici identitarie, culturali e religiose dei popoli europei, fino a quasi dissolverle del tutto. L’immigrazione e soprattutto l’islamismo non hanno potuto avere nella società europea questa rilevante incidenza a causa del vuoto di valori morali e religiosi generato dalla modernità e dal materialismo dominante in tutto l’Occidente?

Sul tracollo morale e religioso dell’Europa come fattore favorente l’aggressione islamista e la volontà di conquista e sottomissione della stessa da parte del radicalismo jihadista credo che non ci siano dubbi. Per altro, una parte almeno della nostra area – e io ne ho fatto parte senza alcun rimorso né rimpianto – ha salutato con entusiasmo il ritorno di Khomeini in Iran e la caduta del governo corrotto dello Scià. Era l’idea del ritorno del sacro e della sobrietà quasi spartana contro la degenerazione laica di tipo occidentale e la depravazione dei costumi secondo la mentalità capitalista. Abbiamo fatto, però un errore di calcolo, per certi versi simile a quello in cui è caduta la sinistra quando sosteneva il Fronte di Liberazione Nazionale algerino ed altri movimenti musulmani intransigenti. Il fatto che l’Islam, nella sua concezione totalizzante, è l’unica fede riconosciuta e, con essa, anche l’unico statuto giuridico accettato. Gli islamisti non riconoscono il dialogo, il confronto, l’interpretazione, perché il Corano è legge, ed ad essa deve assoggettarsi il pensiero, il comportamento, la vita, la stessa scienza. Abbiamo pensato che l’Islam poteva dare una sferzata alla sonnolenta società occidentale, raddrizzandola nei princìpi per una nuova visione del mondo e della vita. L’ottimismo si è scontrato con una realtà sanguinaria e regressiva.

2) L’Islam costituisce oggi una minaccia per l’Occidente in quanto portatore di una visione del mondo integralista – religiosa, che prescrive la “guerra santa”. Ma, secondo il pensiero di Danilo Zolo, non fu l’Occidente americano a teorizzare per primo lo “scontro di civiltà”? Non fu l’America di Bush che, disconoscendo il principio fondamentale del diritto internazionale della inviolabilità della sovranità degli stati, pose in atto a sua volta una “guerra santa” contro gli “stati canaglia”, in nome della pseudo religione dei diritti umani e della esportazione della democrazia? L’Islam radicale non trasse le sue origini nei paesi più strettamente legati all’Occidente quali l’Arabia saudita, gli Emirati Arabi, ed altri?

Ormai è accertato che l’Islam guerriero – Al Qaida è l’esempio primo – è stato finanziato, armato e supportato dagli americani in funzione antisovietica durante la guerra in Afghanistan. Potremmo fare un parallelismo scandaloso con l’Italia. Per combattere il fascismo, l’organizzazione antifascista ha reclutato i mafiosi, ha pianificato lo sbarco anglo-americano, ha facilitato la sostituzione degli uomini nelle istituzioni. Ci siamo trovati con i corrotti negli organismi di Stato, con la mafia strutturata nei centri di potere e le basi americane in una nazione ridotta a territorio di servitù. Così, l’Islam ha vinto sui russi, si è strutturato come esercito, ha impostato un progetto ideologico-religioso, ha pianificato una strategia contro l’Occidente seguendo tattiche diversificate e metodologie più o meno sofisticate. Quello che doveva essere un cobelligerante, o quanto meno un complice, contro il comunismo si è trasformato nell’antagonista più pericoloso della nostra civiltà. Una specie di eterogenesi dei fini: da alleato a padrone nel primo caso, da coalizzato a nemico nel secondo. Anche in questo caso si sono fatti male i conti: la troppa presunzione non ha calcolato le conseguenze delle azioni.

3) L’ideologia dei diritti umani dominante in Occidente ha come finalità la creazione di una società cosmopolita e multietnica. Pertanto l’Occidente ha incentivato per decenni l’immigrazione, esaltato i valori della diversità, della tolleranza e promosso politiche di integrazione nella società occidentale. Ma questa integrazione non si rivela impossibile, a causa del rifiuto degli immigrati (specie se islamici), in quanto queste comunità vogliono preservare la loro identità? Non è più esatto parlare di volontà di assimilazione all’Occidente (in base al modello americano), più che di integrazione, dato che il liberismo cosmopolita tende ad omologare ad un unica cultura egualitaria, materialista e mercatista tutta l’umanità? L’integrazione, non è invece una assurda pretesa europea di imporre agli immigrati la condivisione di valori della società civile in cui gli europei stessi non credono più?

Qui l’analisi si fa più complessa, con un rischio elevato di incomprensione nel sedicente ambiente. Sarebbe il caso di porci degli interrogativi seri e onesti. Siamo disposti a rinunciare alle comodità offerteci dalla tecnica? Siamo persuasi a rifiutare il benessere fino ad ora goduto? Siamo sicuri di poter accettare una riduzione dei diritti acquisiti in nome della parità con altre culture? Per quanto mi riguarda la risposta è no, e ritengo – con piena assunzione di responsabilità – che ogni risposta affermativa sia solo un ipocrita buonismo ed una farisaica demagogia. Secoli di storia hanno condotto alla nostra civiltà attuale. Che questa debba essere ridiscussa e ridimensionata nelle sue espressioni e nei suoi stili di vita è un fatto indiscutibile, ma il cambiamento deve essere praticato per decisioni e forze interne, non delegato alla pressione allogena. Il multiculturalismo è fallito nella sua deformazione monoculturale americana, ma anche l’integrazione, il policulturalismo, la coabitazione etnica ed altre amene illusioni hanno ceduto davanti alla realtà islamista. Parafrasando Lenin posso dire che il sistema attuale è un male rispetto alla nostra comunità di destino, ma è un bene a confronto dell’oscurantismo e dell’arretratezza musulmana.

4) Il senso di colpa diffuso tra gli europei come cultura di massa, è un rilevante elemento della decomposizione della nostra società. Esso si tramuta in passività e rassegnazione generalizzata alla decadenza della nostra civiltà. Tale senso di colpa per il passato imperialista e colonialista europeo viene collettivamente avvertito come assoluto ed irredimibile. Ed è dal senso di colpa che deriva il rinnegamento della propria storia e della propria identità. Esso ha la sua origine nell’ideologia liberale e, secondo me, più che condurre ad un atteggiamento di subalternità verso le minoranze etniche, si riassume in un fondamentale odio verso se stessi. Infatti, per omologarsi alla postmodernità incipiente, le istituzioni e soprattutto la Chiesa Cattolica, non odiano la loro storia e con essa, tutti i valori che ne costituiscono la loro legittimità e quindi la loro ragion d’essere? Gli europei, per trasformarsi in cittadini del mondo globale, non devono perdere il fondamentale senso della propria esistenza ed approdare ad un nichilismo globalista multietnico?

L’odio verso l’Europa, verso la nostra civiltà, verso la nostra storia ha origine lontane e radici comuniste. È del comunista Louis Aragon l’esaltato discorso ai giovani madrileni nel 1925 – novantacinque anni fa, tanto per sottolineare – per la condanna a morte dell’Europa, per l’esaltazione del disfattismo e l’apologia del terrore. E’ di Sartre la gioia sadica per l’Europa “fottuta”. E’ da questa matrice che nascondono i fomentatori del senso di colpa per ogni forma di orgoglio e grandezza della nostra civiltà. Da questi si è diffusa in maniera metastatica fino agli attuali loro nipotini il disprezzo per i proprio retaggio, il disgusto per la sua bellezza, l’odio per la sua potenza, la repulsione verso la sua stessa esistenza. E allora ben vengano – secondo loro – i distruttori di ogni ricordo e di ogni memoria; ben vengano i profanatori dell’arte e della magnificenza; ben vengano i calunniatori della sua stessa identità. Se al delirio terzomondista e al piagnisteo della colonizzazione ci aggiungiamo la teologia sovversiva del papato caratterizzata dal clerico-marxismo gesuitico, non vedo molte speranze di resurrezione dal connubio perverso tra relativismo religioso e capitolazione laica.

 

5) In merito alle problematiche affrontate da Alain de Benoist riguardo alla fine dell’eurocentrismo esaminate nel tuo libro, vorrei fare qualche osservazione. La diversità, quale sinonimo di identità, non è la fondamentale rivendicazione dei popoli di una Europa ormai assimilata e totalmente integrata nell’Occidente americano? L’affermazione della diversità presuppone pertanto la sovranità e l’autodeterminazione dei popoli. I primi ad essere colonizzati già nel ‘900 non siamo stati noi europei? Quindi le potenze emergenti, quali la Russia, la Cina, l’Iran ed altre, non costituiscono un fronte di resistenza formato da stati nazionali avversi a quella globalizzazione, definita da Latouche come “l’occidentalizzazione del mondo? Questi stati sovrani, non si oppongono all’Occidente in quanto in essi sopravvivono valori della società premoderna, che invece in Europa sono quasi scomparsi?

Il problema identitario è strettamente legato a quello della sovranità: vale per i popoli e vale per l’individuo. Sia la psicologia delle masse che quella dell’Io singolo si basano su alcuni parametri ineludibili: uno è che il riconoscimento dell’Altro, quindi il confronto con il diverso, esige sempre una certezza ed una valorizzazione di sé; il secondo è la possibilità, oltre alla capacità, di poter decidere in totale autonomia ed assumersi la responsabilità delle decisioni assunte. Un esempio di questa armonia è stato, secondo me, la Mitteleuropa, dove più popoli, con lingue, culture, espressioni artistiche, economie diverse vivevano tra pari sotto l’insegna di un’unica autorità imperiale. Sono d’accordo con Te sul fatto che la colonizzazione è iniziata agli inizi del ‘900, con l’intervento degli americani nella prima guerra civile europea – sulle cui motivazioni, reali e non apparenti, sarebbe ancora molto da studiare – e con l’istituzione della Società delle Nazioni. Nella simbolica politica già il termine “società” è preoccupante: un contratto tra soci che viene stipulato e mantenuto fintanto che gli utili coincidono, e quindi può anche essere recesso unilateralmente. Ben altro sarebbe una comunità di destino nella quale i popoli si trovano in una visione del mondo condivisa. Il discorso su Cina, Russia e Iran aprirebbe una discussione da volumi, che per quanto di mia competenza si accentra su tre paradigmi: presenza di leader carismatici, elevato orgoglio nazionale e senso di appartenenza del popolo, sogno millenario della politica nazionale ed internazionale.

6) La pandemia del COVID 19 comporterà mutamenti rilevanti nella geopolitica mondiale. Non potrebbe verificarsi una riviviscenza degli stati nazionali, con ripristino dei confini, contenimento dell’immigrazione, rilocalizzazione della produzione e quindi determinarsi il progressivo tramonto dell’era della globalizzazione? Oppure, l’espandersi della pandemia a livello globale, non potrebbe invece favorire l’istaurarsi di un governo oligarchico e tecnocratico globale che avveri le profezie della distopia orwelliana? Quale orizzonte giudichi più plausibile?

Non essendo democratico, e di conseguenza non parlando di ciò che non conosco, escludo ogni commento che riguardi le questioni economiche. Dal punto di vista simbolico mi pare che la globalizzazione sia stata caratterizzata finora da due processi: la diffusione della povertà e quella del virus – due disgrazie concomitanti. Il dato significativo dal mio punto di osservazione è il tracollo dell’utopia europea così come è stata realizzata. Un sistema societario – secondo la definizione accennata prima – dove alcuni Stati si spartiscono gli utili e gli altri assistono alla predazione. Poi, al momento di una difficoltà comune, ogni contratto di solidarietà viene disdetto e ognuno si chiude alla ricerca del proprio profitto e del proprio interesse più miserabile. Che un nuovo ordine mondiale su base tecnocratica, e quindi sul controllo dei popoli attraverso strumentazioni sofisticate e pacifiche, possa prendere il sopravvento sulle sovranità nazionali mi pare che in una certa misura sia in atto da tempo. Un totalitarismo orwelliano sull’Occidente e sugli europei – gli “ovestoidi miti” di Zinov’ev, i mansueti abitanti occidentali – può anche essere nella mente di certi strateghi, ma questi sottovalutano il problema islamista da cui siamo partiti. I  musulmani sono circa il 23% della popolazione mondiale (1.8 miliardi), e se questi dovessero non dico partecipare attivamente, ma quanto meno passivamente aderire al sogno di riconquista dei loro predicatori, non ci sarebbe nessun strumento tecnologico né seduzione economica per fermarli. Un Occidente docile, incapace di reazione, indebolito da un benessere viziato, senza più nessun principio in cui credere né un futuro per il quale combattere non potrà fare nulla davanti alla massa islamista disposta a morire e ad uccidere per un dogma religioso e per l’intoccabilità di un profeta.

Se non si arriverà ad una rianimazione spirituale e politica insieme, con le forze non alienate della post-modernità, questa Europa sarà “fottuta”, per riprendere la terminologia di Sartre, e la responsabilità non sarà riversabile sui nemici esterni o sull’irreversibilità di un destino crudele.

https://www.ariannaeditrice.it/articoli/l-europa-tradita-e-l-agonia-di-una-civilta

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Andrea Zhok

Il mondo in cui viviamo è egemonizzato dalla prospettiva liberale e dal capitalismo. Certo, rispetto agli anni Settanta, la contemporaneità è attraversata da un diffuso pessimismo, alimentato dalla crisi del 2008, ed ora amplificato dalla pandemia da Covid-19. Molti ritengono che il «sistema liberale» sia giunto al capolinea. Viviamo una fase di lento tramonto di tale ideologia, anche se gli oppositori del liberalismo incontrano difficoltà a progettare un futuro diverso dal presente utilitarista. Può essere d’aiuto, allo scopo, un approfondimento teorico della «ragione liberale». La fornisce un libro del ricercatore triestino Andrea Zhok, Critica della ragione liberale. Una filosofia della storia corrente, da poco edito da Meltemi. Il volume ricostruisce in modo organico la genesi del liberalismo, giungendo all’esegesi del suo farsi mondo nella contemporaneità.

L’interpretazione dello studioso è transpolitica, in quanto la sua è storia filosofica. Zhok si interroga su due componenti indissolubilmente presenti nel percorso umano: la motivazione e la determinazione. La prima sfera è afferente ai bisogni e alle volontà degli uomini, la seconda è data dalle condizioni in cui essi si trovano ad agire: «Nella storia le determinazioni non sono mai cause necessitanti […] ma circoscrivono spazi di maggiore o minore possibilità» (p. 14), il che implica che sia possibile attingere a spazi politici apparentemente inattingibili. La teorizzazione della «fine della storia» (Fukuyama), pensata dopo il crollo dell’Unione Sovietica, si fondava sulla constatazione che la liberal-democrazia capitalista era insuperabile in quanto fondata sul: «confluire di due istanze […] da un lato la ricerca dell’efficienza, dall’altro la ricerca del riconoscimento reciproco tra individui» (p. 17). Tale certezza è oggi venuta meno.

Per Foucault, al contrario, il liberalismo non è una teoria politica coerente, in quanto si è affermato in termini di prassi governamentale. Gli orientamenti del liberalismo classico, a suo dire, dopo il Secondo conflitto mondiale, si sono sviluppati nell’ordoliberismo e nel neoliberismo. Al centro di tali scelte, la biopolitica intesa quale: «politica economica che si appropria della vita umana e delle sue espressioni» (pp. 20-21). E’ possibile, comunque, individuare i due assetti portanti del «liberalismo storico»: 1) l’evidente individualismo normativo ed assiologico; 2) la visione della società strutturata attorno allo scambio economico. L’imporsi della ragione liberale va   letto in sintonia all’affermarsi del capitalismo. Tutto ebbe inizio con la Rivoluzione industriale inglese, nella quale trovarono sintesi le istanze filosofiche di Hobbes, Locke e Smith, attorno a tre assi portanti: la legittimazione dell’agire individuale, la creazione di un’efficiente pratica monetaria e la rivoluzione tecnico-scientifica, supportate dal capitale sociale ed istituzionale, ovvero da un solido Stato nazionale. Prerequisiti del liberalismo moderno vengono rintracciati da Zhok nel mondo antico, in particolare nell’affermazione della costituzione cognitiva individuale che rese l’uomo, attraverso forme alfabetiche semplici e flessibili, soggetto riflettente, atto a cogliersi come altro rispetto alla comunità. L’accelerazione decisiva di tale processo si manifestò nel 1455, con l’invenzione della stampa a caratteri mobili e, successivamente, con la Riforma protestante. In essa:    «l’anima individuale viene letteralmente innalzata senza mediazioni al cospetto di Dio» (p. 36).

La scienza moderna galileiana, riducendo la natura a dimensione meramente quantitativa, rese la natura comprensibile attraverso la matematizzazione: ciò aprì le porte alla manipolabilità tecnica: «Il mondo diviene […] un “grande oggetto” posto da un soggetto divino, che però viene immediatamente tolto anch’esso dal quadro» (p. 41). Ruolo significativo fu svolto dalla numerazione indiana, introdotta in Europa dagli arabi nel XII secolo, che adottava un alfabeto numerico di soli dieci numeri, per non dire, della nascita del denaro virtualizzato all’epoca della creazione della Banca d’Inghilterra nel 1695 (naturalmente privata). Il mercato liberale, sorse dalla fusione di due sfere differenti, il mercato locale e il commercio internazionale, messa a punto dalla monarchia inglese. Hobbes non fece che dare unità filosofica a quanto emerso nella scienza e lesse la natura quale: «luogo delle relazioni meccaniche tra corpi in moto» (p. 62), pensando la libertà quale semplice mancanza di coazioni esterne. Il suo stato di natura è il luogo del conflitto perenne, dal quale si esce delegando in toto la libertà individuale alla Stato assoluto. Per ovviare a tale soluzione, nient’affatto liberale, Locke pose i tre diritti naturali inalienabili: autoconservazione, libertà e proprietà. Quest’ultima è indiscutibile, in quanto la prima proprietà di ognuno di noi è il corpo, che deve poter agire liberamente.

Tolleranza e divisione dei poteri sono la risultante, per Locke, della delega parziale a vantaggio dello Stato del diritto di libertà. In ogni caso, l’individuo e i suoi diritti rimangono, anche in lui,  prioritari rispetto al bene comune. Smith giungerà a sostenere, ricorrendo alla mano invisibile del mercato, che il perseguimento dell’interesse privato (il vizio, secondo l’etica antica) è in grado di produrre il bene comune (la virtù). Se nel Settecento, le realizzazioni del liberalismo furono giudicate un progresso, nel corso della storia successiva, la ragione liberale è, andata «solidificandosi». Lo si evince, nella realtà contemporanea, dal politicamente corretto, che marca i confini di ciò che può essere pensato legittimamente. Ricorda Zhok, che chiunque intenda mettere in discussione i principi fondanti della ragione liberale, subisce la reductio ad Hitlerum. Inoltre, la religione dei diritti umani, di cui è parte integrante la teoria gender, ha fatto perdere di vista: «ogni interesse collettivo» (p. 266), in quanto centrata sui diritti del singolo, di un narciso, il cui mondo interiore svuotato di senso, è riempito in modo effimero dall’inseguimento delle merci e dal novum che il mercato offre. Il «totalitarismo» liberale mostra una capacità autosalvifica straordinaria: fa crescere opposizioni teoriche che restano interne la sistema. E’ il caso, dice Zhok, delle filosofie postmoderniste francesi: «E’ essenziale osservare come questa tendenza anti-olistica […] sia una perfetta incarnazione dell’individualismo liberale classico, e sia agevolmente metabolizzata dalle dinamiche di mercato» (p. 285). Egli individua in Nietzsche il padre di tale corrente di pensiero. Non condividiamo tale giudizio, in quanto in Nietzsche è evidente il riferimento paradigmatico alla classicità, quale antidoto al moderno rizomatico.

L’autore rileva che «uscita di sicurezza» dalla società liquida può essere colta solo in una prospettiva «socialista». Riteniamo che ciò non debba rinviare al marxismo, ma a un «socialismo» capace di coniugarsi con il pensiero di Tradizione, atto a svolgere ruolo raffrenante nei confronti della dismisura, quint’essenza della «ragione liberale».

*Critica della ragione liberale. Una filosofia della storia corrente, di Andrea Zhok, da poco edito da Meltemi (per ordini: redazione@meltemieditore.it, 02/22471892, pp. 374, euro 22,00) 

Giovanni Sessa