Giancarlo Maculotti
Prima edizione – Armando Editore – Roma 2008
Seconda edizione riveduta ed ampliata: marzo 2016
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Sommario
Presentazione di Gigi Cortesi | p. 5 |
Una grande riforma Il miserabile paese degli aiutini e degli applausi ai funerali La scuola dei Draghi Colpevole indifferenza Sono venuto a mettere in discordia il figliolo con il padre… (Matteo 10, 35-37) Sesso ed educazione sentimentale Infilar la fede nei discorsi La pedagogia del lavandino Lettura e biblioteche scolastiche Prima che il buio copra tutto Non è un programma Il messaggio di Barbiana La motivazione Il maestro vale un fico Il bullismo La scuola al femminile La supplente sta in vacanza Dio me l’ha data e guai a chi la tocca I diplomifici Le responsabilità del sindacato La scuola italiana all’estero Dicesi commerciante Precariato La cultura del docente La scuola spiegata alla Mastrocola Laboratori intonsi L’insegnamento delle lingue straniere L’insegnamento della matematica Educazione Artistica, Tecnica, Musica Ambiente e curricolo locale L’era Gelmini Basta una pendrive La vera autonomia La febbre non cala? Rompiamo il termometro Il tempo pieno L’opzionalità Per un sano centralismo Finalmente la buona scuola. Ma la didattica? Milioni di Gianni Un’unica grande riforma Estratti di Recensioni | p. 9 p. 13 p. 15 p. 21 p. 26 p. 32 p. 38 p. 45 p. 48 p. 51 p. 56 p. 62 p. 67 p. 71 p. 74 p. 80 p. 82 p. 88 p. 91 p. 94 p. 97 p.100 p.106 p.110 p.113 p.117 p.122 p.127 p.132 p.134 p.138 p.141 p.143 p.147 p.154 p.157 p.161 p.164 p.167 p.169 p.173 |
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Presentazione
«Ragazzo» deriva dall’arabo ragias, che significa corriere,guida, messaggero. Se l’autorità sa accogliere il messaggero e ascoltare il messaggio, il ragazzo diventa discepolo, cioè colui che impara, ma soprattutto guida, cioè soggetto e fulcro della sua stessa educazione. Eppure gli insegnanti si lamentano del numero eccessivo di allievi. Non li capisco. Come se una bella donna si lamentasse di possedere un numero eccessivo di gioielli! Misteriosi messaggeri, prodigiosi messaggi, insospettate guide: questo sono i ragazzi. Più sono, meglio dovrebbe essere. Non chiedono che di venire accolti e ascoltati. Invece, quasi sempre si trovano di fronte anime di adulti, che non sanno stupirsi di fronte al mistero, né sanno abbracciare il prodigio, né lasciarsi guidare dalla novità.
Come potranno questi adulti essere autorità? «Autorità» deriva dal verbo augere, che significa far crescere, e dal suffisso -tor, che indica il ruolo, la professionalità. Come potrà far crescere questi prodigiosi messaggeri chi, senza essere lui per primo cresciuto, non è inquieto nei cammini, curioso nella ricerca, rapito dal nuovo, interrogato dall’assoluto? Chi indica più gli orizzonti? Chi si affaccia oltre le colonne d’Ercole dello scontato, del sicuro, del programmato? Forse nella scuola c’è non troppo precariato, ma troppo poco; non troppa insicurezza, ma troppo poca. Solo il precario chiede l’assoluto. Solo l’inquieto sa intuire i sentieri della quies, direbbe Agostino. Come può mostrare orizzonti e indicare strade la cultura del tramonto (questo significa «Occidente»)? Come può, allora, la scuola farsi luogo di stupore, ricerca, accoglienza, risposta? Come può essere riflessione e rifrazione, se nessuna luce illumina più le coscienze e le interiorità? Come può avvincere un libro, se nessuno lascia più intuire la dolce intimità del cuore, il sorriso del pensiero?
Se la scuola non è tutti questi interrogativi, si perde, conferma Illich, diviene sempre più autoreferenziale. E alla fine conta solo conservare il posto di insegnanti, bidelli, dirigenti, ministri; importa soltanto tutelare le garanzie sindacali, l’adeguamento ai programmi, la “produttività dell’azienda”. È il ragazzo dove è? Chi lo accoglie, chi lo ascolta, chi lo segue?
A psicoterapeuti e psichiatri capita sempre più spesso di avere come pazienti allievi, genitori, insegnanti, dirigenti e amministratori scolastici, forse anche ministri. A sentirli, pare proprio che non siano poche le personalità scompensate, fragili o gravemente disturbate che stanno, a vario titolo, nelle aule scolastiche. Non si riesce a capire come la scuola regga.
Moltissimi genitori sono ancora – prima di tutto – figli, con tanto di cordone ombelicale che li lega alle famiglie d’origine, impedendo loro di essere davvero coppia, di “sposarsi” davvero, di potere davvero essere genitori. La genitorialità è evento relazionale e gioco di squadra, non fatto individuale.
Ci sono insegnanti e dirigenti scolastici con gravi problemi psichici, con difficoltà relazionali, talora con disturbi di personalità, specie di tipo narcisistico (DNP). Non si sa come possano interagire con colleghi e allievi, né come possano insegnare o dirigere. Chi soffre di DNP, per esempio, è cieco nella empatia ed è manipolatorio nelle relazioni. Eppure – cosa molto preoccupante – molti di essi godono fama di essere “bravi e seri” nel loro lavoro. Viene il dubbio che gli artefici di tale fama abbiano problemi ancora più grossi o, cosa non rara, un atroce brama di masochismo genitoriale e pedagogico.
Come è possibile che nessuno se ne accorga e dica quanto la scuola può essere patologica e patogena? Perché si tace? Se, per esempio, come spesso accade, si dà il massimo dei voti a una allieva anoressica, di fatto si collude con la patologia, con il bisogno psicotico di difendersi e dimenticarsi nel rituale mnemonico dello studio, di evitare gli altri, il mondo, la realtà; e si collude con il bisogno della famiglia di non vedere il problema. Eppure, con le logiche attuali, non si può fare altrimenti. E che dire – caso non raro – di insegnanti, che, abusati da bambini, non hanno mai potuto o voluto elaborare terapeuticamente il loro abuso? Che cosa in-segneranno, cioè che cosa segneranno dentro i loro allievi, se ancora non hanno scavato e risolto ciò che ha cosi gravemente segnato la loro anima e la loro esistenza?
Quanto agli allievi, quasi sempre, più che essere loro il problema, sono vittime di genitori, di insegnanti, di strutture gravemente patogeni. Sono le vittime, e vengono portati in terapia come se fossero loro il problema. Ci sono genitori e istituzioni che chiedono aiuto a parole (quindi in perfetta, ma non
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certo sufficiente buona fede), ma che nei fatti hanno bisogno che il figlio o l’allievo sia un problema, sia “il” problema, così da non vedere che il vero problema sono loro.
Ben venga dunque un libro come questo, che si chiede quanto e come la scuola possa, voglia, sappia rispondere al compito che le è proprio. L’autore è un uomo di scuola a tutto tondo. È stato insegnante, è dirigente scolastico, è amministratore locale. È molto bravo, purtroppo non sarà mai ministro. Ha esperienza notevolissima, vede i problemi dal di dentro, con concretezza, è ben documentato, determinato. Vuole capire e risolvere. Non è solo un faber dell’insegnamento e della istituzione. È un saggio intellettuale, capace di sguardo ampio, anche dal di fuori, a grandangolo, interroga pure l’al di qua e l’al di là della scuola. Parte da fatti; con fatti pone problemi decisivi: il senso e l’esercizio della autorità e della educazione; il modo di motivare e preparare insegnanti e dirigenti; il senso e l’efficacia delle “riforme”; il ruolo dei sindacati; la funzione dei genitori; il rapporto famiglia-scuola; la relazione educazione-libertà e autorità-libertà. A che porta la scuola, si chiede, se “ci sono (…) dei laureati che si vantano di non avere più aperto un libro dopo la fine degli studi”? Leggere questo libro significa interrogarsi a fondo, ammettere che siamo “di fronte a una normalità patologica subita come ineluttabile”. Non sono pagine ansiolitiche e consolatorie; sono pro-vocazioni, cioè chiamano innanzi con chiarezza e realismo. Non possono non in-segnare chi le legge.
«Scuola» deriva dal greco scholé, che, a sua volta, si rifà al verbo echein, ‘avere’. La scholé era dunque quel tempo prezioso che porta ad avere sé stessi, così che l’avere coincida con l’essere. Non a caso l’equivalente latino di scholé è otium, cioè il tempo della libertà e della identità più vere e radicali. Provate ad andare a dire a un ragazzo d’oggi, che la scuola è il tempo della libertà e della identità; verificherete subito quanto lontana sia oggi dalle proprie origini la scuola. Invece, se si vuole, essa è il tempo della libertà e della identità.
Resta un dubbio. Se l’amore, la gioia e – con essi e in essi – la libertà e l’identità non possono essere dati, ma vanno conquistati, desiderati, amati, quasi rubati, giorno dopo giorno, attimo dopo attimo, come possono essere affidati alla scuola, se questa è un obbligo, stabilito per ideologia e per legge? Se è obbligo, poi per forza di cose tutto finisce, come nota l’autore, per essere “contrattato”: quando, come, chi interrogare; se fare o non fare un compito; quali materie portare all’esame; quante ore di aggiornamento degli insegnanti ci siano; che ruolo abbiano i genitori nella scuola; quando e come si diventi di ruolo; che cosa vada o non vada riformato; e così via.
La scholé presuppone il senso del cammino. Se una coppia, una società, una storia, una cultura non sanno dove vanno e perché esistono, che senso avrà mai l’auctoritas?
«Adolescente» e «adulto» derivano dal latino, dal verbo ad-alescere (da cui adolescere) ‘essere nutrito, crescere’, a sua volta risalente ad alere, ‘nutrire’, della cui azione indica l’avvio, e alla preposizione ad, che indica l’intenzionalità orientata: «adolescente» e «adulto», rispettivamente il participio presente e quello passato di ad-alescere, indicano quindi ‘colui che sta cominciando a crescere’ e ‘colui che ha già cominciato a crescere’. Quanti di noi – genitori, insegnanti, cittadini – sono veri adulti, hanno cominciato a crescere nell’amore, nella cultura, nella vita, negli stupori? Quanti di noi possono essere riferimento credibile per un adolescente, che solo ora sta cominciando a crescere e, come una timida lumachina, mette fuori dal guscio le sue piccole antenne? È l’immagine, cui ricorrono Horkheimer e Adorno in appendice a Dialettica dell’illuminismo, là dove parlano della stupidità come del callo prodotto quando le antenne sono puntualmente negate, ributtate indietro. O forse conviene a tutti che i ragazzi la smettano una buona volta di pro-vocarci, di essere i messaggeri di un mistero, di guidarci nel futuro? Perché non fanno i bravi? Perché non vogliono essere stupidi? Perché creano problemi a tutti noi, ministri compresi?
Se forse qualcosa manca a questo libro, è uno sguardo anche antropologico. Farò, perciò, qualche nota in questa ottica.
Per un adolescente la sfida con l’assoluto e con il problema della morte dovrebbe essere un diritto garantito e rispettato, così come dovrebbe esserlo quello dell’esperienza viva e confermata della propria
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unicità, tutta giocata tra la sistole della solitudine e la diastole dell’appartenenza. In molte culture, che noi ci ostiniamo a chiamare “primitive”, l’adolescente nel rito di iniziazione vive il riconoscimento e l’attuarsi di questi diritti così sacrosanti. Noi siamo la società e la cultura della rimozione della morte, della negazione di ogni confronto con essa; noi abbiamo abolito i riti di iniziazione, li abbiamo considerati una barbarie inutile e pericolosa. Invece sono parte sostanziale e irrinunciabile della evoluzione del ragazzo e della sua integrazione al gruppo sociale, al punto che, se non li dà la società, se li prende lui, se li gestisce in proprio, con logiche auto-referenziali necessariamente reattive e marginali, che – queste sì – comportano rischi gravissimi ed esiti antisociali o delinquenziali, spesso riversati nella scuola e contro la scuola, nella istituzione e contro l’istituzione. Sia che piombino nella implosione solitaria del suicidio o della rinuncia a vivere e ad affrontare la realtà, sia si esprimano nell’azione violenta e anche omicida del gruppo, spesso azioni, che parrebbero sfogo assurdo o raptus inspiegabile, sono figlie di una mancata risposta sociale e culturale al bisogno-diritto del giovane di sfidare la morte, di verificarsi e identificarsi anche di fronte alla estrema sfida, quella con l’assoluto (e dell’assoluto può essere figura proprio la morte). Solo dopo la sfida è possibile l’identificazione-rinascita del Sé e l’acquisita appartenenza culturale, sociale, istituzionale. È dovere sacro e compito inviolabile non della scuola, ma della società e della cultura trovare i modi, i tempi, i luoghi, i riti, attraverso i quali possa, debba, voglia essere rispettato il diritto alla sfida e alla identità profonda, che – sola – dice chi è l’adulto. Il problema non è pedagogico, tanto meno didattico, né compete alla scuola. Il problema è antropologico, e compete alla società complessiva e alla cultura.
Dunque, i riti di iniziazione non spettano alla scuola, anche se, in passato, alcuni momenti scolastici particolarmente difficili e altamente selettivi hanno avuto un’indubbia valenza iniziatica: per esempio l’esame di quinta elementare fino al secondo dopoguerra o quello di “maturità” fino a pochi anni fa finivano con il sancire l’accesso alla dimensione adulta e al riconoscimento sociale, che a questa compete. Oggi neppure con il dottorato di ricerca si giunge a tanto. Ripeto, alla scuola non compete questo compito; comporterebbe la riduzione della scuola a mero momento di formazione professionale e di avviamento al lavoro. Solo società e culture ideologicamente finalizzate ad assolutizzare il lavoro e la produzione possono giungere a tanto. Ma non si può neppure usare la scuola come alibi e strategia, per non fare mai divenire adulti, per imprigionare in una adolescenza stupida e senza fine; porterebbe la scuola – e già ne abbiamo i segni quotidiani – a essere complice e culla della ideologia della noia e della disperazione, quella che vorrebbe far vivere senza identità, senza interiorità, senza emozioni.
Il rito (o la prova) di iniziazione c’è e ci deve essere, perché il gruppo sociale ha bisogno di verificare (rassicurando sé stesso) e di confermare (rassicurando il giovane e l’azione formativa della sua famiglia) l’adeguatezza del giovane e della generazione nuova (il giovane in greco era chiamato néos, ‘nuovo’) a rispondere ai problemi radicali dell’uomo; come sopravvivere; come affrontare l’angoscia e la morte; come con-fluire nei valori sociali e culturali; quale mondo volere; quale destino scegliere per sé e per gli altri. Solo attraverso l’eseguirsi di questa verifica può continuare il cammino di una società e di una cultura. Ripeto, questa verifica non compete alla scuola o soltanto – perfino con attribuzione di colpe – alla scuola. Né la scuola deve prestarsi al gioco di essere il capro espiatorio, facendo male (né potrebbe essere altrimenti) ciò che la società e la cultura non fanno: selezionare e decidere chi è adulto e chi non lo è, chi cammina e chi si fa trascinare. Farlo significherebbe per la scuola divenire strumento ideologico e alibi di una società e di una cultura immobili.
Acculturare un ragazzo non significa dire e stabilire che è adulto. Solo un micidiale corto circuito tra senso accademico e senso antropologico di cultura, può portare alla confusione attuale. Sotto molte forme di bullismo, così come sotto altri terribili fenomeni tanto crescenti, quanto taciuti (l’aumento negli adolescenti dei suicidi, delle dipendenze, dei disturbi psichici, degli incidenti e delle performance mortali, della delinquenza, della non autonomia) c’è una mancata risposta al bisogno di iniziazione all’età adulta. Si va a sfidare la morte e a cercare l’unicità del Sé fuori dalla società e contro la società.
Sbaglia la scuola a farsene carico. È compito non suo. Soprattutto non è compito suo la assunzione e la gestione della autorità sociale e culturale. Se si fa carico di questo compito, finisce con l’essere l’alibi e la discarica delle impotenze sociali e culturali. Finisce con l’essere contro i ragazzi e contro il nuovo1,
1 Ha perciò ragione l’autore quando afferma che “è difficile essere autorevoli in una società dove ogni principio di autorità viene sistematicamente delegittimato”. Ma, a mio avviso, sbaglia quando conclude che “dei sistematici interventi repressivi vanno usati fin dalla nascita, abituando da subito al rispetto di norme di buona convivenza. Non vale la scusa che il piccolo non capisce. Se non capisce capirà, ma intanto rispetta gli oggetti e le persone perché i genitori glielo impongono. Ci
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provocando nei ragazzi una risposta simmetrica e spingendoli, di fatto, a vedere nella scuola il nemico e l’ostacolo.
Società e culture ferme, che non hanno più orizzonti da scoprire, sogni da inseguire, desideri da soddisfare, progetti da realizzare, perdono autorevolezza né sanno più in-segnare di autorità i giovani e, meno che meno, la scuola; finiscono con il negare ogni autorità e con il convincersi di non avere bisogno di alcuna autorità. Le anarchie nascono dalla immobilità delle società e delle culture. Si finisce così, di fatto, con il legittimare il permissivismo (nella scuola e non solo), per coprire la mancanza di autorità e di persone autorevoli a livello sociale e culturale. Si aboliscono le prove di iniziazione, le si considerano ostacoli e crudeltà inutili. E si finisce da un lato con il lasciare i giovani nell’indeterminato, nel vago della non identificazione di sé, nel vuoto emotivo ed etico, nell’assenza della curiosità e dello stupore, anche e soprattutto dello stupore d’amore; d’altro lato si lascia il gruppo sociale nella paranoia di fronte a tutto ciò che è nuovo e, in particolare, di fronte al giovane, soprattutto al più vivo, al più creativo, al più intelligente, a quello che può dare di più. Poi, di tutto questo, magari si dà colpa alla scuola. Dopo averle tolto autorità, la si accusa di non averla o di non saperla gestire.
Non è la scuola a dovere dare risposte di questo tipo. Deve essa stessa riceverle. Non da sé stessa, ma da tutti noi come società e come cultura in cammino. Occorre ribadirlo: il problema, prima che scolastico, è antropologico. Ma questo discorso spetta ad altri autori. Maculotti il suo l’ha già fatto.
Gigi Cortesi