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La patologizzazione del dissenso

Fonte: Comedonchisciotte

Aldous Huxley: un metodo farmacologico per “piegare” le menti dei cittadini

“Credo che le oligarchie troveranno forme più efficienti di governare e soddisfare la loro sete di potere e saranno simili a quelle descritte in Il mondo nuovo“.

In una lettera del 21 ottobre 1949, lo scrittore Aldous Huxley scriveva a George Orwell che nel prossimo futuro il potere avrebbe presto attuato the ultimate revolution: “inducendo le persone ad amare il loro stato di schiavitù”.

Huxley si mostrava convinto che i governanti avrebbero assunto la forma della dittatura “dolce”, in quanto avrebbero trovato nell’ipnotismo, nel condizionamento infantile e nei metodi farmacologici della psichiatria un’arma decisiva per piegare le menti e il volere delle masse. Un’ipotesi che il romanziere inglese avrebbe confermato nel 1958 nel suo saggio Ritorno al mondo nuovo.

Nel 1932 lo stesso Huxley aveva ambientato il suo capolavoro distopico, Il mondo nuovo, in un mondo globale pacificato, in cui una droga di Stato, il soma, controlla lo stato d’animo dei cittadini.

Nella distopia huxleyana non c’è posto per le emozioni forti, per l’amore, per l’odio o per il dissenso. Non c’è spazio per l’intuizione, l’arte, la poesia, la famiglia.

Le persone sono arrivate ad amare le proprie catene perché  sono state manipolate prima ancora della nascita tramite l’eugenetica e da adulte sono totalmente spersonalizzate e manipolate nel profondo.

In questo modo non è possibile alcuna forma di ribellione. E il potere ha raggiunto il proprio scopo: fare in modo che i cittadini non diano fastidio.

Di fatto, per creare una società apparentemente perfetta e pacificata si devono controllare se non addirittura annientare, cancellare le emozioni, rendendo i cittadini degli zombie.

La patologizzazione del dissenso

La creazione di una sorta di “terrore sanitario” sta diventando il grimaldello per scardinare le libertà individuali e stringere le maglie del controllo sociale.

Come mostro nell’edizione ampliata e aggiornata di Fake news (Arianna Editrice), i casi di censura, boicottaggio e attacchi sempre più spietati contro l’informazione indipendente si fanno ormai quotidiani.

Ci dobbiamo chiedere se la biosicurezza non ci stia portando verso una dittatura sanitaria  e se non si stia tentando di patologizzare il dissenso per poter intervenire in maniera coatta e creare un pericoloso precedente: trattare e ospedalizzare i dissidenti.

Nella società del politicamente corretto coloro che non si allineano al pensiero unico vengono da tempo denigrati, perseguitati e marchiati con etichette diverse e tuttavia sempre denigratorie, per incasellare appunto il dissenso; ora, però, a quest’opera capillare di discredito si affianca il tentativo di curare i dissidenti per riportare costoro nel giusto binario e poterli riaccogliere nella società.

Nell’ultimo anno abbiamo assistito a inquietanti precedenti, dalla creazione della nuova espressione “sovranismo psichico” (1) alla proposta di una ricercatrice dell’Istituto italiano di tecnologia di utilizzare scariche elettriche  o magnetiche per influenzare il cervello e curare gli stereotipi e i pregiudizi sociali. (2)

Per Galimberti i negazionisti sono “pazzi”

Ultimo esempio in ordine di tempo di patologizzazione del dissenso sono state le dichiarazioni del filosofo Umberto Galimberti che, ospite della trasmissione Atlantide su La7, (3) ha equiparato i negazionisti del Covid ai pazzi:

“I negazionisti hanno paura della paura. Più che paura provano angoscia. Perdono i punti di riferimento. E arrivano a essere dei deliranti. Il negazionismo è una forma di contenimento dell’angoscia […]. Coi pazzi non è facile ragionare. Si può persuadere chi nega la realtà che la realtà è differente? Molto difficilmente”.

La sua esternazione non è isolata: negli ultimi mesi si sta cercando di indurre l’opinione pubblica a sostenere l’equiparazione tra negazionisti (ma anche complottisti e NO vax) ai pazzi, che andrebbero quindi sottoposti a cure psichiatriche per poter essere riaccettati in seno alla società.

Alla luce dei casi di Tso a Dario Musso (4) e all’avvocatessa di Heidelberg, Beate Bahner, molto critica con le misure prese dal governo per la quarantena da Coronavirus, (5) il tentativo di psichiatrizzare i dissidenti dovrebbe sollevare l’indignazione non solo degli addetti ai lavori, ma della popolazione.

Il problema di fondo è che sotto l’etichetta denigratoria di “negazionista” ma anche “complottista” rientra chiunque critichi la versione ufficiale della narrativa mainstream o si permetta di dissentire dai provvedimenti governativi basati sul biopotere.

Curare il dissenso

Ci troviamo di fronte a un atteggiamento paternalistico, autoritario e scientista del potere che mira a ottenere cieca obbedienza da parte dei cittadini e nel caso che questi si rifiutino di sottomettersi in modo acritico, di poter correggere il comportamento e il pensiero di costoro attraverso la psichiatria o la tecnologia.

Il totalitarismo dei buoni sentimenti (“buoni” solo in apparenza) ha i suoi cani da guardia pronti a riportare all’ovile chiunque dissenta od osi manifestare pubblicamente dei dubbi. Oggi la psicopolizia sembra pronta a elaborare nuovi strumenti degni di una psicodittatura.

Si vuole neutralizzare la coscienza critica e censurare qualunque forma di dissidenza. Chi dissente va censurato, deve arrivare a vergognarsi non solo di quello che ha detto, ma di quello che ha “osato” pensare.

Potrà pertanto essere riaccettato nella comunità solo a patto di umiliarsi, di chiedere pubblicamente perdono, di sottoporsi a cure psichiatriche per guarire da una malattia che il totalitarismo progressista spera di curare: pensare in modo libero e critico. Fake News 4D – Libro 4D

Letteratura

Ai posteri l’ardua sentenza

Facendo una piccola analisi retrospettiva, mi chiedevo se, nella seconda metà del ‘900, ci fossero stati romanzieri o poeti italiani degni di passare alla posterità. Non riuscendo a farmene venire in mente alcuno, ho girato la domanda ad Andrea Malaguti, assistant professor al dipartimento di Italiano presso la Columbia University di New York. Di seguito la sua risposta:

In verità, non ho ancora capito quando mai la buona scrittura, chiara e precisa, sia mai stata di casa in Italia. Ti cito un brano da una rivista del 1939:
Un’ attenzione che supera, nei più chiari momenti, il limite del troppo insistito diletto musicale, per penetrare e vibrare in un mondo sensibile nuovo, dove la consueta logica delle cose comuni pare che si sfaldi in una indeterminatezza continua di postulati, quasi che a ogni passo il terreno che siamo soliti battere minacci di franare sotto il nostro cauto piede. Generica impressione ancora, che rimarrebbe pur magra cosa se si esaurisse in sé, ma che poco a poco, procedendo il lettore fra continue emozioni e reali cadute, la cui colpa è spesso del medesimo poeta, pur giunge a raccogliere, da quell’apparente dissolvimento della realtà, un ordine nuovo, traducibile forse nei temini precisi di una continua conoscenza di morte, prolungata oltre lo stesso avvenimento del fatto fisico, inquantochè è essa un presente dello spirito più che del mondo esterno.
Siamo ai limiti della leggibilità; eppure è Giorgio Caproni a ventisette anni. Se penso che la generazione di Biagi e di Bocca all’epoca era al liceo, mi sento male; evidentemente sapevano diffidare degli insegnanti. Però questo mi dà l’idea dell’importanza della Guida al Novecento, dove invece si privilegiava un certo senso della realtà. Ma allora perché non si vedono ancora gli scrittori che hanno fatto il liceo negli anni settanta? (Bah, forse perché non siamo negli anni trenta e quindi c’è molta sfiducia nella letteratura-letteratura; ergo si evita di scriver bene per paura di non avere successo e si scrive male per poter vendere, anche se poi i romanzi fanno schifo e la gente li compra solo per farsi vedere à la page: così succede in Francia…)

È sempre faticoso rapportare il passato col presente, visto che per l’uno la storia ha già fatto la sua ampia tara e per l’altro no. Comunque, per amor di congettura, se la generazione che ha fatto il liceo con la Guida al Novecento di Salvatore Guglielmino alla mano non s’è ancora prodotta in niente di buono, forse è perché l’ansia del successo immediato è tale da non consentire i tempi lunghi e meditativi della letteratura seria. E soprattutto, dagli anni settanta in avanti, non solo non c’è più niente in cui credere, ma nemmeno niente a cui opporsi: la caduta in silenzio dei movimenti studenteschi (o addirittura il passaggio dei loro esponenti ai ranghi di difesa del capitalismo globale) ha tolto anche la voglia di polemizzare. A chi ti opponi, se a scuola t’insegnano solo un sacco di balle da rivendere bene e trovarti un posto grazie a papà?
Il libro deve solo essere accattivante e per essere venduto oggi e buttato nel cestino domani. Ogni insegnante delle varie scuole di scrittura creativa in Italia — conosco Carlo Lucarelli, della Holden di Torino — ti dirà che gli studenti scartano volentieri qualsiasi soggetto originale, qualsiasi storia veramente loro per uniformarsi al modello in vigore: giallo, noir o altro. L’importante è imparare il trucco vincente e pigliare i soldi facilmente (come Baricco, come la Tamaro).

Oggi le crisi che stimolavano tanta letteratura in passato non sono più una novità, ma uno stile di vita a cui ci siamo adattati; siamo tutti uomini senza qualità senza bisogno della filosofia di Musil e senza l’intelligenza per capirla. Quando l’unica cosa seria da scrivere, come suggerisci tu, è un saggio scientifico e ben documentato e meditato, alla Luciano Gallino, che ti porta a concludere che il mondo fa schifo e sarà sempre peggio, visto che fa comodo a tanti e che comunque nessuno, anche volendo, potrebbe metterci mano, a che serve scrivere romanzi? A fare il buffone in tv assieme a Maurizio Costanzo?

dalla prima edizione di bondeno.com Giovedì, 16 marzo 2006 alle 11:27:23 CET

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Hugo Pratt

Hugo Pratt, l’italiano di Argentina

L’omaggio all’artista ideatore di Corto Maltese arriva dal Sudamerica con il volume “Hugo Pratt, el tano”

by Giorgio Ballario 18 Novembre 2020 in Cultura 0

1. Pratt (al centro con il montgomery) accompagnato dagli amici alla stazione per la sua partenze verso l’Argentina (all’estrema destra la madre)

Lo scorso agosto ricorreva il venticinquennale della morte di Hugo Pratt, scomparso a Losanna all’età di 68 anni. Uno degli omaggi più significativi arriva dall’Argentina, dove il “papà” di Corto Maltese visse e lavorò per oltre dieci anni e dove divenne una “stella” di primo piano del fumetto nazionale. Nelle scorse settimane è uscito a Buenos Aires il volume “Hugo Pratt, el tano” (l’italiano, nel gergo argentino), opera del collezionista e ricercatore Aldo Pravia, pubblicato dall’editore Casa de Papel. L’opera è un’accurata e minuziosa biografia del periodo argentino di Pratt, che sul finire degli anni Quaranta partì giovanissimo per il Sudamerica (aveva appena 23 anni) e vi restò fino all’inizio degli Anni Sessanta, collaborando con i migliori autori locali e dando lustro alla “historieta” (fumetto) argentina, che – a differenza del coetaneo fumetto italiano – godeva di grandissimo riconoscimento come una diversa forma di arte e letteratura, e non semplice intrattenimento per ragazzini.

Pratt in tenuta “quasi” da Corto Maltese

A Buenos Aires

Pratt arrivò a Buenos Aires dopo la fugace avventura italiana de L’Asso di Picche, con Alberto Ongaro e Mario Faustinelli, richiamato da un editore di origine italiana, Cesare Civita, che stava facendo fortuna con la Editorial Abril pubblicando fumetti e i romanzi di Emilio Salgari. Hugo giunse al porto di Buenos Aires in compagnia di Faustinelli, dopo diciassette giorni di navigazione, e da lì a pochi mesi vennero raggiunti dallo scrittore Ongaro e altri due disegnatori italiani, Ivo Pavone e Sergio Tarquinio. Pratt e Faustinelli si sistemarono in una villetta nell’elegante e residenziale sobborgo di San Isidro, a nord della città, e cominciarono a collaborare con alcuni tra i più grandi autori argentini dell’epoca:  Alberto Breccia, Arturo Del Castillo, Hector G. Oesterheld, Francisco Solano López ed Eugenio Zoppi.

Nel libro Pravia racconta nel dettaglio il crescente successo raggiunto fin da subito da Hugo Pratt, di certo il più talentuoso nella pattuglia dei fumettisti italiani. Le collaborazioni alle riviste CinemisterioMisterix, Supermisterix, Hora Cero Semanal  e Frontera Extra illustrando personaggi diventati poi mitici come Ray Kitt, Il Cacicco bianco, Il Sergente Kirk, Ernie Pike, le serie Ticonderoga e Jungleman. In particolare Pratt diventò partner professionale e amico dello sceneggiatore Oesterheld, il futuro “papà” dell’Eternauta, che una ventina d’anni più tardi, nel 1977, diventerà uno dei tanti intellettuali “desaparecidos” nel corso della dittatura militare. 

Tenuta da marinaio a San Isidro

La seconda moglie

Ma in “Hugo Pratt, el tano” non si parla soltanto di fumetti. C’è spazio per una mole impressionante di informazioni e aneddoti sul decennio trascorso dall’autore veneziano in Sudamerica, oltreché per molte foto inedite. «Nella villetta di San Isidro», racconta Pravia nel libro, «Hugo e i suoi amici erano vicini di casa di molte famiglie benestanti che vivevano nel quartiere, si fecero benvolere e di conseguenza passavano di festa in festa, di piscina in piscina, da un “asado” all’altro, tra musica, vino e ragazze». Tra i vicini conosce anche una ragazzina, Anne Frognier, che molti anni dopo diventerà la sua seconda moglie. A quanto pare Hugo piaceva molto alle ragazze e nella biografia degli anni argentini gli si attribuiscono innumerevoli flirt con colleghe di lavoro e altre donne bellissime, tra le quali l’attrice Olga Zubarry. 

Viaggio in Patagonia

«Pratt era il più attivo del gruppo», racconta sempre Pravia, «e il suo straordinario talento di disegnatore gli consentiva di divertirsi e andare in giro fino a notte fonda e poi disegnare fino a quaranta vignette in un giorno, abbozzando le scene con pochi tratti di matita e poi completandole con il pennello». Dopo qualche anno però il gruppo degli italiani si divise e Pratt andò a vivere con Pavone da un’altra parte, vicino all’ippodromo, e poi in un piccolo appartamento vicino alla stazione ferroviaria di Acassuso, sempre nella zona nord di Buenos Aires, in riva al Rio de la Plata. Sono anche gli anni in cui Hugo Pratt comincia a viaggiare, va in Patagonia poi in Brasile, fino in Amazzonia. Finché un giorno non ritorna da un viaggio in Italia in compagnia di una giovane austriaca,  María Wögerer, sposata a Venezia, con la quale si trasferisce a vivere più in centro, a Buenos Aires. In quel periodo insieme con  Alberto Breccia, Ángel Borisoff e Carlos Roume diventa anche docente alla Escuela Panamericana de Artes. 

Omaggio postumo all’Argentina: Corto Maltese che dice “Las Malvinas son argentinas”

Dall’Argentina a Londra

La parentesi argentina si conclude nel 1959. Uno dei suoi principali committenti, la Editorial Frontera, fallisce e Pratt accetta l’invito ad andare a lavorare a Londra. Resta in Gran Bretagna meno di dodici mesi, si trasferisce di nuovo in Sudamerica, a San Paolo del Brasile, dove si ferma un anno, poi fa un fugace ritorno a Buenos Aires. Infine, nel 1962, arriva il definitivo ritorno in Italia. Hugo ha altri progetti e all’orizzonte già si intravede la sagoma inconfondibile di Corto Maltese.

La copertina di una rivista per bambini illustrata da Pratt
La copertina del volume argentino “Hugo Pratt, el Tano”
editoria

Editoria USIS

L’opera silente ma efficiente dell’USIS (United States Information Service, poi Agency dal 1953) nell’Italia del dopoguerra

“Per quanto riguarda l’USIS in Italia, l’editoria italiana poté beneficiare delle attenzioni dell’agenzia fin dal principio delle sue attività: dai documenti emerge che già nel 1951 diverse opere furono pubblicate grazie all’intervento statunitense. Solo per citarne alcune, L’igiene mentale nella sanità pubblica di P. V. Lemkau e Imperialismo sovietico: la marcia della Russia verso il dominio del mondo di Ernest Carman per le edizioni Astrolabio; la Cappelli di Bologna pubblicò Storia degli Stati Uniti d’America di Charles e Mary Beard; per Longanesi venne pubblicato Ho scelto la libertà di Viktor Kravchenko; per Bompiani, Dentro l’America di John Gunther. Fra i resoconti delle attività dell’USIS è possibile individuare collaborazioni in Italia almeno fino al 1969. Non tutti i libri venivano inclusi nei programmi di sovvenzione: la diffusione di opere ritenute poco funzionali non era in alcun modo incoraggiata, come poté verificare l’editore vicentino Neri Pozza. Nel 1957 questi chiese l’intervento statunitense per dare alle stampe Common Sense di P. Henry Wicksteed; la risposta dell’agenzia fu affidata ad una lettera della responsabile dell’Ufficio culturale, Gertrude Hooker:
“Mi rendo conto del valore culturale e dell’importanza di una pubblicazione di Common Sense di P. H. Wicksteed in Italia, e al tempo stesso delle difficoltà di ordine finanziario inerenti ad un libro di grossa mole e di non grandi possibilità commerciali. Ci spiace però doverLe comunicare che, non trattandosi di un autore americano, non siamo in grado di fornirLe alcun contributo concreto.”
Pozza riuscì però a ottenere il supporto statunitense per la pubblicazione della collana “Tradizione Americana”: per ammissione dello stesso editore, libri che «nessun editore italiano s’è mai sognato di pubblicare». Titoli come L’uomo di fiducia di Herman Melville o Storia di New York di Washington Irving. Il contributo americano si concretizzava nell’acquisto – a un prezzo di favore – di una percentuale della tiratura di ogni volume oscillante fra il 30 e il 40%: dell’opera La Guerra civile di Miss Ravenel di John W. De Forest (1964) vennero acquisite dall’ente 800 copie su 3.000; per Strade maestre di Hamlin Garland (1965) l’acquisto fu di 800 copie su 2.000; per Storia di New York (1966) di 900 copie su 3.000 di tiratura complessiva.
I titoli pubblicati da Neri Pozza dovevano essere stati ritenuti meritevoli di supporto dagli addetti dell’Operations and Policy Research, un ente che si occupava della verifica dei testi per conto dell’USIA e provvedeva a suddividerli in sei categorie: “Maximum Promotion”, “High level normal use”, “Low level normal use”, “Normal use”, “Conditional use” e “Not suitable”. Le opere che rientravano nell’ultima categoria venivano così descritte:
“Libri mal scritti, di basso livello e lavori che distorcono i fatti e riportano conclusioni non supportate non hanno spazio nel programma. Libri che sono fortemente critici verso gli obiettivi della politica estera degli Stati Uniti sarebbero un intralcio effettivo al programma. I libri che rientrano nella categoria sono quelli che invocano la distruzione delle istituzioni libere, promuovono o rafforzano la propaganda comunista, o sono osceni, di scarsa qualità e sensazionalisti.”
Vita di uno scrittore di Henry D. Thoreau – evidentemente, ben valutato dai revisori americani – venne promosso con solerzia dalla Hooker; nel carteggio con Neri Pozza il funzionario metteva in evidenza la convenienza economica dell’operazione: «Appena possibile la pregherei di farci conoscere i dati e le condizioni necessarie per la stesura di un contratto, tenendo presente che l’USIS ha già provveduto a compensare il traduttore e che quindi Lei non dovrà sostenere a questo riguardo alcuna spesa».
L’agenzia acquistò 700 copie dell’opera e contribuì alle spese di rilegatura. Neri Pozza fece parte del ristretto gruppo di editori che instaurarono relazioni con l’ente americano pur non operando a Milano o Roma, centri nevralgici della produzione libraria italiana. Oltre alla casa editrice veneta, l’USIS ebbe proficui rapporti con il Mulino e Cappelli a Bologna; con Salani e La Nuova Italia a Firenze; con Guanda a Parma; con Nistri-Lischi a Pisa e con Marietti, Taylor ed Einaudi a Torino. Più numerose le collaborazioni con le case editrici milanesi (Longanesi, Mondadori, Bompiani, ecc.) e romane (Opere Nuove, Mundus, Saturnia, ecc.), rapporti che fra il 1951 ed il 1969 portarono alla pubblicazione di oltre 250 opere. La maggior parte delle collaborazioni avvenne nell’ambito del Book Translation Program, ma un numero significativo di testi – almeno 30 fra il 1961 e il 1969 – vide la luce grazie al Public Law 480 Textbook Program. I referenti italiani per l’attuazione di tale programma furono il Mulino, che propose la collana “Classici della democrazia moderna”, e la casa editrice romana Opere Nuove, che grazie al sostegno statunitense pubblicò opere come Ormond il testimonio segreto di Charles Brockden Brown o Vecchio mondo creolo di George Washington Cable. Come negli altri Paesi, la presenza dell’agenzia in Italia si configurava su un duplice livello: agli accordi riservati con gli editori si affiancavano le attività di pubblico dominio, portate avanti tramite gli Information Center presenti su tutto il territorio; questi si occupavano della promozione e diffusione della lettura, proponendosi come un punto di riferimento culturale nelle comunità dove l’accesso ai libri era difficoltoso. In Italia gli Information Center erano 8, a Catania, Firenze, Milano, Napoli, Palermo, Roma, Torino e Bari.”

Da L’editoria e la United States Information Agency, di Andrea Marinello.

storia

Italiani Brava Gente

Pescando a caso nei vecchi articoli mi sono imbattuto per caso in una presentazione di un’opera allora agli inizi e adesso ultimata:

Il primo volume esamina gli sviluppi dell’ordinamento giuridico delle isole sotto l’occupazione provvisoria (1912-1923), poi divenuta piena sovranità dell’Italia (dal 1923 alla seconda guerra mondiale), col passaggio da un’amministrazione diretta da militari a una di funzionari civili, evidenziando le sfere di autonomia di cui godettero sino al 1936 le tre comunità insulari: greca ortodossa (numericamente preponderante), turca musulmana, israelita sefardita (di quest’ultima viene delineata anche la situazione successiva alle leggi razziali del 1938). Il libro passa poi a descrivere in quali ambiti le autorità militari italiane decisero a partire dal 1912 di intervenire nella realtà locale, organizzando in molti casi ex novo i servizi pubblici e riuscendo a superare il difficile periodo della prima guerra mondiale, per poi doversi confrontare con l’irredentismo ellenico.

Il governo di Mario Lago segnò per il Dodecaneso l’ingresso nella “modernità”: costruzione di infrastrutture ma anche rigore nell’amministrazione pubblica, ordinamento di aspetti rilevanti della vita sociale (come catasto, censimento, sanità, assistenza all’infanzia, istruzione, bilanci comunali, elezioni amministrative), sviluppo dell’economia, promozione della cultura, apertura al turismo internazionale. Il volume ricostruisce il profilo biografico di Mario Lago (un diplomatico amico di qualificati esponenti della cultura italiana di primo Novecento, egli stesso scrittore e critico d’arte) e la sua opera di governo in Egeo sullo sfondo dei complessi rapporti tra amministrazione italiana, regime fascista, enti locali, comunità etnico-religiose nonché delle esigenze di politica estera e del ruolo di Rodi come centro d’influenza italiana in Levante particolarmente nei riguardi degli Ebrei.

Il governo del quadrumviro Cesare Maria De Vecchi di Val Cismon (1936-1940) segnò per le isole egee un periodo di forte pressione da parte fascista e il tentativo di maggiore assimilazione all’Italia. L’entrata in guerra dell’Italia nel 1940 e l’attacco alla Grecia rimisero in questione il destino del Dodecaneso e i sentimenti filoellenici di molti suoi abitanti. Il governo in Egeo del generale Ettore Bastico e dell’ammiraglio Inigo Campioni fu seguito dall’occupazione tedesca dopo l’8 settembre 1943. Si ebbe quindi una situazione unica: un’amministrazione civile italiana, retta dal vicegovernatore Iginio Ugo Faralli, vista con diffidenza sia dai nuovi invasori sia dagl’isolani greco-ortodossi, in un territorio italiano sotto una dura occupazione militare germanica tagliato fuori da collegamenti diretti con l’Italia, mentre gli Ebrei nel 1944 venivano deportati e in gran parte sterminati dai nazisti e le isole vivevano una drammatica carestia sino al termine della guerra. Al periodo di amministrazione militare britannica (1945-1947) fece seguito la definitiva cessione del Dodecaneso alla Grecia, con la comunità italiana costretta ad abbandonare l’Egeo.

filosofia

Probabilismo

Per quanto riguarda i sistemi fisici complessi, come quelli studiati da Ilja Prigogine (Premio Nobel 1977), si tratta di situazioni fisiche che possono evolvere in stati di non-equilibrio da lui chiamati Strutture dissipative, tali da determinare delle biforcazioni evolutive verso equilibri nuovi e differenti più o meno probabili. Prigogine può perciò esser considerato il maggior esponente del probabilismo della complessità, avendo speso la maggior parte della sua vita ad occuparsi dei sistemi complessi e indirettamente del probabilismo ontico. Infatti, in situazioni di disequilibrio, allorché le possibilità evolutive entrano in un processo di successive biforcazioni, queste sono tutte governate unicamente da probabilità del tipo ‘’aut/aut’’. Alla fine del processo, quando il sistema si assesta in un nuovo equilibrio, l’unica domanda che lo scienziato può farsi in termini gnoseologici è la seguente: «Era da ritenersi probabile o improbabile che finisse così?».

https://it.wikipedia.org/wiki/Probabilismo#Probabilismo_etico

autori, Letteratura

Etienne de la Boétie

Si chiamava ÉTIENNE DE LA BOÉTIE e il 1° novembre compirebbe 490 anni!

Nacque infatti nel 1530. Fu filosofo, giurista e politico. Incantò Michel de Montaigne che lo portò nei suoi pensieri fino alla morte e lo amò di quell’amore particolare e unico che è l’amicizia pura, quella per cui si darebbe la vita.

Il suo “Discorso sulla servitù volontaria“, sicuramente il più celebre tra i suoi scritti, ancora oggi, a quasi mezzo millennio dalla sua prima pubblicazione, resta valido nella sua struttura essenziale.

Incredibile, vero?

Ma no, è che in fondo l’essere umano, quello che compone la “massa”, non è che nei secoli e nei millenni sia molto cambiato!

Del resto i romani avevano chiaro che il “popolo” lo tieni buono con panem et circenses e se questo non basta passi alle maniere forti.

Mutatis mutandis il panem et circenses si trasformò in feste, forche e farina. E qui già era chiaro da subito che se le feste e la farina non bastavano si aggiungevano le forche, che poi, se non ti riguardavano direttamente diventavano un passatempo. Ah gli umani, che perle del creato!

Ma la cosa fantastica che Etienne seppe mettere a fuoco è come fa a reggersi il potere di un essere qualunque, a volte anche insulso.

Per Étienne c’è una sorta di malinteso esistenziale che tiene in piedi il potere, e si basa su cosa? Sulla SERVITU’ VOLONTARIA.

Caro, grande Étienne, a vent’anni speravo che il tuo libro sarebbe stato presto obsoleto e invece no, uno lo riesuma e scopre – purtroppo – che è ancora valido.

Be’, buon compleanno. Tra dieci anni, quando compirai il mezzo millennio, ti faremo una festa grande, e sicuramente metteremo sul tavolo una nuova edizione del tuo Discorso sulla servitù volontaria che ancora, ci giurerei, non sarà diventato obsoleto.

Di Patrizia Cecconi, ComeDonChisciotte.org

01.11.2020