storia

La crisi di Corfù

La crisi di Corfù fu innescata dall’uccisione dei membri di una missione militare italiana in territorio greco, episodio noto come “eccidio di Giannina”, avvenuta il 27 agosto 1923.
Mussolini, nel condannare l’eccidio, inviò un ultimatum al Governo greco pretendendo da esso, oltre alle scuse formali, l’istituzione di una commissione d’inchiesta che individuasse i colpevoli, la pena capitale per questi ultimi, un risarcimento economico di 50 milioni di lire e che la flotta greca rendesse gli onori alla bandiera italiana con un’apposita cerimonia.

La proposta venne accolta dal Governo greco solo in parte e Mussolini replicò schierando nel mar Ionio una squadra navale.

corfu
L’Italia occupò, quindi, Corfù, innescando la crisi. Atene chiese allora l’intervento della Società delle Nazioni, trovandovi l’appoggio di Londra, mentre Parigi accoglieva l’eccezione italiana che chiedeva che l’arbitrato fosse affidato alla Conferenza degli Ambasciatori.Il 27 settembre Corfù fu evacuata dalle truppe italiane dopo che la Conferenza degli Ambasciatori ebbe riconosciuto come legittime le richieste dell’Italia. Il Governo greco dovette, quindi, accettare di pagare i 50 milioni richiesti e di tributare gli onori alla bandiera italiana che la squadra navale ricevette al Falero, per far poi definitivamente ritorno a Taranto.

sociologia

La cultura del narcisismo

 

Più in generale, nel quarantennio trascorso dalla prima uscita di La cultura del narcisismo, è la stessa «democratizzazione dell’istruzione» a essersi rivelata nefasta, confermando quanto appunto Lasch vedeva in prospettiva: «Non ha allargato le cognizioni della gente comune sulla società moderna, né ha migliorato la qualità della cultura popolare e neppure ha accorciato il profondo divario tra ricchi e poveri. Ha contribuito invece al declino del pensiero critico e al decadimento degli standard intellettuali». Basta dare uno sguardo alla compagnia di giro degli «opinionisti televisivi», una vera e propria professione, per capire di cosa si sta parlando, per non dire della cloaca da web imperante.

La strage di anziani di cui sono lastricati questi giorni all’insegna del Covid-19 e dell’emergenza sanitaria, ci mette del resto sotto gli occhi, con evidenza schiacciante, ciò che Lasch aveva fotografato come un dato in fieri: «La nostra società non sa che farsene degli anziani. Li bolla come inutili, li obbliga ad andare in pensione prima che abbiano esaurito la loro capacità lavorativa e rafforza in ogni occasione la loro sensazione di superfluità. Svalutando l’esperienza e attribuendo una grande importanza alla forza fisica, alla destrezza, all’elasticità nello stare al passo con le idee nuove, la società definisce la produttività in termini che escludono automaticamente i cittadini anziani». Quello in cui ormai viviamo immersi sino al collo è un drammatico mutamento del senso storico, una società che, avendo perso l’idea del passato, ha perduto però ogni interesse per il futuro, non trasmette più perché non tramanda più, una sorta di eterna giovinezza-attualità con un’idea di crescita zero di popolazione.

Il nuovo millennio, dunque, realizza in pieno ciò che nel XX secolo era una linea di tendenza. Abbiamo di fatto un’etica della comodità e il culto dell’edonismo e dell’autorealizzazione. Abbiamo sostituito alla formazione di carattere la permissività, alla cura delle anime la cura della psiche, all’autorità individuale l’autorità parimenti irrazionale degli esperti di professione. Come scriveva Lasch, «le nuove strutture di dipendenza create dalla nuova classe dominante, e che agiscono con efficacia pari a quella con cui, in epoca precedente, venne sradicata la dipendenza del contadino dal suo signore, dell’apprendista dal suo padrone, della donna dal suo uomo», non sono il portato di un complotto o di «una colossale congiura ai danni delle nostre libertà». Più semplicemente, hanno a che fare con il susseguirsi di situazioni di emergenza di fronte alle quali il culto del pragmatismo da un lato, l’incapacità politica di vedere oltre i problemi immediati dall’altro, funzionano da provvisori tamponi per l’hic et nunc.

A ciò si unisce ciò che sempre Lasch definiva la protezione «del sistema del capitalismo corporativo dal quale i manager e i professionisti che lo gestiscono traggono i maggiori benefici. La maggior parte di noi è in grado di vedere il sistema, ma non la classe che lo controlla e che monopolizza la ricchezza che esso crea. Se rifiutiamo l’analisi di classe della società moderna, ci precludiamo la possibilità di comprendere l’origine delle nostre difficoltà, i motivi della loro persistenza, i modi eventuali di superarle». A emergenza finita, sarà forse il caso di riflettere su tutto questo.

Focus (di S.Solinas). La cultura del narcisismo di Lasch: negazione del passato e nuova crisi

giallo, premio

Premio Gran Giallo città di Cattolica

E’ stato pubblicato il nuovo bando del 47°Premio Gran Giallo Città di Cattolica per il miglior racconto inedito giallo organizzato dal Comune di Cattolica in collaborazione con Il Giallo Mondadori. La partecipazione al concorso è gratuita ed è aperta a tutti. Le opere dovranno essere inedite in lingua italiana, avere una lunghezza massima di 20 cartelle e inviate secondo le modalità contenute nel bando che è possibile leggere e/o scaricare cliccando qui.
Si può partecipare con un solo elaborato. I racconti dovranno essere inviati entro il 18 maggio 2020. Il vincitore sarà pubblicato nella prestigiosa Collana Il Giallo Mondadori e sarà premiato a Cattolica, a conclusione della manifestazione ufficiale che si terrà dal 22 al 27 giugno 2020.

L’articolo Premio Gran Giallo Città di Cattolica proviene da Associazione World SF Italia.

memorie

Memorie

Mio padre, appena tornato, dovette ripartire per fare il militare, perché la guerra fatta come paracadutista dalla parte della Rsi non contava. Ironia della sorte, era capitato nella leva di mare, quindi due anni ancora. Suo padre si era ammalato durante la Guerra d’Africa e per curarsi aveva bisogno di alcune fiale costosissime, che in quel periodo la famiglia non si poteva permettere. Allora papà decise che, siccome doveva farsi altri due anni sotto le armi, tanto valeva usarli bene… Così diventò sommozzatore e andò a sminare i porti di tutt’Italia, attività pericolosissima ma con un indennizzo in denaro sonante: in pratica, ogni mina valeva una scatola di medicine per mio nonno.
Alla fine della fiera, mio padre non ci lasciò le penne e mio nonno nemmeno. Il fratello di papà, invece, sì.
Zio Carlo era stato ammazzato da partigiani festanti il 25 aprile del 1945, in quel di Verona. E il corpo, come quello di migliaia d’altri, non è mai stato ritrovato.
«Sentirsi come un cane, di tuo una divisa/ due gladi ed il tuo onore, un cuore una ferita»…
Poco tempo fa sono stato a trovare Giuliano, uno degli amici di mio padre, forse quello che gli era più vicino, per chiacchierare un po’ di lui… Finimmo a parlare di zio Carlo…
«Carlo c’era venuto a trovare a Ciriè… sarà stato metà febbraio del ’45… Ormai stavamo alla fine, quindi gli avevamo detto di restare con noi… Sai, alla Folgore eravamo bene armati e compatti… tant’è che nessuno ci ha tolto le armi… quindi con noi sarebbe stato più sicuro. Con noi si sarebbe salvato».
«E perché non è rimasto con voi?».
«Perché non se l’è sentita di lasciare i suoi camerati… tuo padre aveva insistito, ma lui aveva sorriso, sapendo perfettamente come zittirlo: “A Guglie’, tu li abbandoneresti Giuliano e gli altri?”… E infatti tuo padre non aveva potuto fare altro che abbracciarlo, pregando Iddio di rivederlo un giorno».
Ma Dio aveva deciso diversamente… E mio padre ogni tanto partiva per cercarlo.
Io ero un bambino e credevo andasse fuori per lavoro: così mi dicevano a casa. Ma ogni volta che tornava aveva la stessa faccia dura, svuotata. Finché un giorno, preoccupato da quei viaggi di lavoro che finivano così tristemente, con grande sforzo chiesi a mia madre se stavamo per diventare poveri… Solo allora mi dissero la ragione per cui papà ogni tanto partiva per il Nord…
C’era stata la guerra, una guerra fratricida… Suo fratello e tanti suoi amici erano morti, l’orrore aveva sommerso le loro vite. Eppure, un mese prima di morire, al ritorno da un grande raduno dove aveva rivisto tanti suoi vecchi camerati… anche quelli espatriati in Sud America una vita prima… raccontando la giornata si mise a piangere: era la prima volta che lo vedevo così. Ebbene, davanti a mia madre che adorava, e a noi figli che amava allo stesso modo… davanti alla famiglia che gli aveva restituito gioie immense, non esitò a dire che quelli erano stati gli anni più belli della sua vita.
Era dicembre 1986, ed erano passati solo sei anni dal cataclisma che si era abbattuto sui “miei” anni.
Non ebbi difficoltà a capire mio padre, quella sera. E lo capisco ancora adesso, che di anni ne son passati quasi quaranta.
(Da “Noi – canzoni d’amore per la lotta e di lotta per l’amore)

Argomenti vari

Il Borghese

Caro Direttore,

un grazie sincero a Bozzi Sentieri per avere ricordato il “Borghese” di Leo Longanesi, a settant’anni dal suo primo numero, e gli alti e bassi della sua esistenza. Non ho nulla da correggere su quanto egli ha scritto; permettimi tuttavia qualche piccola aggiunta, legata a ricordi personali non di collaboratore, ma di amico di alcuni fra i suoi redattori.

“Il Borghese” non nacque come organo neofascista. Longanesi, del resto, dopo il 25 luglio non aveva aderito alla Rsi, anzi aveva scritto per il “Messaggero” un editoriale in cui celebrava il ritorno alla libertà. Ma la libertà ritrovata lo deluse e per questo divenne, se non un “leo-fascista”, come qualcuno scrisse scherzosamente di lui, un anti-anti-fascista, e tale rimase. Prodotto di questa sensibilità fu “Il Borghese”, espressione di una cultura laica e anticomunista, che non si riconosceva nel confessionalismo della Dc, della quale per altro paventava le aperture a sinistra. In un primo momento poteva accadere che un giovane e promettente storico come Giovanni Spadolini potesse collaborare simultaneamente al “Borghese” e al “Mondo” di Mario Pannunzio; solo in un secondo tempo gli fu posto da quest’ultimo l’aut aut fra le due testate e l’ex collaboratore di “Italia e Civiltà” optò per la seconda, aprendosi la strada per una prestigiosa carriera giornalistica, accademica e infine politica.

La testimonianza di Melchionda

Comunque “Il Borghese” era tutt’altro che collaterale al Msi. Roberto Melchionda, un fine studioso di Evola che per vivere fece il capoufficio stampa della Confindustria di Firenze, mi raccontò della sua mancata collaborazione al settimanale quando era un giovanissimo reduce della Rsi. Longanesi gli propose un articolo sui ragazzi delle organizzazioni giovanili missine e, com’era sua abitudine, gli spiegò come avrebbe dovuto scriverlo: rappresentando l’iperattivismo di questi giovani che volantinavano, facevano a botte con gli avversari, affiggevano manifesti quasi come il prodotto di una sovrabbondanza vitale, di un esubero di “energia orgonica”. Melchionda declinò l’invito: a scrivere un articolo così – come in fondo Longanesi gliel’aveva già scritto – gli sarebbe sembrato di tradire il suo mondo. E dire che all’epoca era squattrinato e disoccupato, e “Il Borghese” pagava bene…

La direzione di Mario Tedeschi e la svolta più a destra

La radicalizzazione a destra del settimanale incominciò dopo la morte di Longanesi, con la direzione di Mario Tedeschi, che era un reduce della X Mas, e con l’allontanamento di Montanelli, che per altro aveva quasi sempre pubblicato i suoi articoli sotto pseudonimo, per motivi di esclusiva con il “Corriere” e presumo anche di opportunità politica. Per motivi di opportunità, come mi rivelò tanti anni fa lo stesso Melchionda, Montanelli si tirò fuori all’ultimo momento dal tentativo di trasformare i circoli del “Borghese” che Longanesi aveva fondato in un movimento politico, per il quale aveva scelto la profetica denominazione di “Lega dei Fratelli d’Italia”. Così Montanelli lasciò l’amico solo sul palco del milanese Teatro Odeon a presentare con un istrionico e travolgente discorso il movimento, che naturalmente ebbe vita breve.

Il derby tra il Borghese e il Mondo

La questione però è più complessa. Dalla morte di Longanesi in realtà si andò verificando in buona parte del giornalismo italiano una biforcazione, si parva licet, fra una destra e una sinistra longanesiana. La destra longanesiana fu quella di Tedeschi e di Gianna Preda, caporedattrice e comproprietaria del settimanale, e poi di Montanelli (l’impaginazione del primo “Giornale” aveva eleganze da “Omnibus”). La sinistra fu quella dei Pannunzio, dei Cederna, dei Gorresio degli Scalfari, che, partita col “Mondo” da posizioni liberali critiche del keynesismo, sarebbe approdata al radicalismo dell’“Europeo” e poi di “Repubblica”. In realtà, sia il “Borghese” che il “Mondo” si rivolgevano a un pubblico borghese, ma si trattava di due borghesie diverse. Quella di Tedeschi era una vecchia borghesia di colonnelli in pensione, di funzionari statali “di gruppo A”, di professionisti all’antica (non a caso “Il Borghese” troneggiava nelle sale lettura dei Circoli Ufficiali e nelle anticamere dei dentisti); quella dei nipotini di Pannunzio, che pure, per molti aspetti, era un uomo d’ordine, era una neoborghesia rampante, quella che con gli anni ‘70 avrebbe finito per prevalere.

Le firme: da Montalli ad Accame e Prezzolini

Ciò nonostante, “Il Borghese” visse fino al 1972 proprio durante la gestione Tedeschi-Preda i suoi anni migliori, con tirature altissime che gli permettevano, nonostante gli scarsi introiti pubblicitari, di pagare un ottimo borderò, assicurandosi firme prestigiose come quella di Prezzolini, di mantenere redazioni locali, come quella di Firenze, cui fu destinato il giovane Giano Accame per “tenere d’occhio” il sindaco Giorgio La Pira e le sue aperture a sinistra, di avere inviati speciali anche all’estero, di promuovere un’attività editoriale di tutto rispetto. E questo nonostante la concorrenza a destra di almeno due settimanali, come il “Candido” di Guareschi e poi di Pisanò e “Lo Specchio” di Giorgio Nelson Page, per tacere di “Gente”, di Edilio Rusconi, settimanale popolare che però poteva vantare ottime pagine culturali, con collaboratori come Piero Capello, e inviati speciali come Luciano Garibaldi. I suoi articoli erano molto letti e seguiti nel “Palazzo” e potevano provocare una crisi ministeriale. Avvenne nel 1965. Gianna Preda, ben introdotta nei salotti registrò con un magnetofono nascosto una conversazione tenuta con Giorgio La Pira a casa di Bianca Rosa Provasoli coniugata Fanfani, sua amica nonché consorte dell’allora ministro degli Esteri, e poi, slealmente, pubblicò il tutto sul “Borghese”. Il “sindaco santo” (o “il santo pazzo”, come l’aveva ribattezzato Guareschi) aveva fatto dichiarazioni tanto imbarazzanti da costringere Fanfani alle dimissioni.

La crisi del settimanale

La crisi del “Borghese” ebbe inizio nel 1972. Fino ad allora il settimanale era stato un organo politico ma non partitico e aveva annoverato lettori in un’area di “grande destra” spaziante dal movimento sociale ai liberali, dai monarchici ai democristiani impazienti delle aperture a sinistra: nel 1963, per esempio, la Preda aveva redatto un dépliant propagandistico del Pli di Malagodi. Con le elezioni del 1972 “Il Borghese” divenne di fatto un organo ufficioso di partito con la candidatura di Tedeschi al Senato nelle liste del Msi-Destra Nazionale. Gianna Preda ci mise del suo, dando le parole a una marcetta un po’ kitsch, “L’ultima frontiera”, musicata Pino Roncon, con cui si aprivano i comizi di quella tormentata campagna elettorale (ma la sua adesione fu di breve durata: se ne allontanò per dissenso nei confronti delle posizioni antidivorziste della dirigenza missina).

Il successo meno brillante del previsto della Destra alle elezioni del 7 maggio, le ambiguità della gestione almirantiana del partito, oscillante fra appelli alla maggioranza silenziosa e istanze ribellistiche, la persecuzione giudiziaria e non solo giudiziaria del Movimento sociale, condussero Tedeschi a promuovere nel 1976 la scissione di Democrazia nazionale, che condusse al crollo delle vendite del settimanale. “Il Borghese”, che nel 1972 aveva perso parte del pubblico moderato, fu abbandonato quattro anni dopo dai lettori missini. Ho conosciuto abbonati del settimanale che non si recarono nemmeno a ritirare in edicola le copie cui avrebbero avuto diritto (anche allora usava dotare gli abbonati di buoni consegna, per ovviare ai disservizi postali), per non contaminarsi con quel foglio di “badogliani”. La sindrome del 25 luglio colpiva ancora!

La scissione di Democrazia nazionale

In realtà, Almirante ebbe la mala ventura di essere un ex leader della sinistra sociale del partito condannato a perseguire una politica di destra nazionale e un reduce della Rsi ossessionato dal mito della nobiltà della sconfitta incapace di amministrare una rispettabile pattuglia parlamentare in un momento in cui l’Italia sembrava volgersi a destra. A loro volta, gli scissionisti di Democrazia nazionale avevano il torto di dire cose in parte giuste (le loro posizioni anticipavano il revisionismo che portò alla nascita di An), ma di dirle nel momento e nel modo sbagliato. Fra loro, per altro, c’erano molti esponenti del fascismo storico, di alta levatura culturale, da Ernesto Di Marzio a Gianni Roberti, ma anche reduci della Rsi, come Piera Gatteschi, già comandante delle ausiliarie, ed esponenti di spicco del mondo giovanile, come Pietro Cerullo. L’adesione dell’ex “repubblichino” Tedeschi alla scissione era probabilmente legata alla sua adesione alla P2 di Licio Gelli, ma comunque l’intera operazione si rivelò un fallimento non solo elettorale. Se il “Borghese” sopravvisse fino alla morte del direttore fu probabilmente per gli introiti pubblicitari assicurati da accordi sottobanco con la Democrazia cristiana o per i buoni rapporti di Tedeschi col potentissimo direttore degli Affari riservati del ministero dell’Interno Federico Umberto D’Amato. Ma chi scrive – e non solo lui – si rifiuta di credere che egli sia stato davvero uno fra i mandanti della strage di Bologna, come insinuato da una recente indagine giudiziaria che pretenderebbe di processare i morti.

Soprattutto, non sarebbe giusto dimenticare i numerosi meriti non politici ma culturali e umani di Mario Tedeschi. In primo luogo la sua altissima concezione del giornalismo e della professione giornalistica. Un ex redattore del “Borghese” degli anni d’oro mi raccontò che il direttore  e proprietario della testata pagava lo stipendio ai redattori solo per scrivere, in genere un articolo o due a settimana: a impaginare la rivista ci pensava lui, aiutandosi con lo spago, come faceva Longanesi ai tempi di “Omnibus”. Certo, Tedeschi aveva le sue idee e tendeva a imporle ai redattori: memorabile il suo scontro sul Sessantotto con Giano Accame. Il grande scrittore e giornalista tendeva a cogliere gli aspetti positivi di quella rivolta giovanile contro il “sistema” e quando si vide rifiutare dal direttore un paio di volte i suoi articoli poco allineati, abbandonò il settimanale. Fu un peccato, ma occorre riconoscere che in quel caso era Tedeschi ad avere ragione.

Le raffinate pagine culturali

È giusto aggiungere che le pagine e le rubriche culturali del “Borghese” erano di un altissimo livello e la qualità di scrittura impeccabile. Certo, molti lettori incerti se acquistare una rivista osée o un giornale politico optavano per il settimanale di Tedeschi per le patinate pagine interne, a colori, in cui accanto alle foto rubate di notabili Dc con le dita nel naso era possibile contemplare le foto pruriginose di qualche discinta attricetta (riprodotte naturalmente perché i lettori potessero rendersi conto della corruzione dei tempi…). Ma una rubrica di bibliofilia elegante come “La bottega dell’antiquario” di Antonio Pescarzoli basterebbe oggi a nobilitare le pagine di qualsiasi rotocalco. Grazie a Tedeschi e a Claudio Quarantotto le Edizioni del Borghese, con le loro traduzioni delle opere di Paul Sérant, di Brasillach, ma anche del presidente dell’Internazionale liberale Salvador de Madariaga e dello stesso John Kennedy, sprovincializzarono negli anni ’60 il panorama culturale della destra.

Il tributo a Gianna Preda

Lo stesso si potrebbe dire di Gianna Preda. In un’epoca in cui le donne nei periodici erano confinate al ruolo della cronista mondana (o viceversa), Maria Giovanna Pazzagli coniugata Predassi – questo il suo vero nome – inaugurò un giornalismo d’assalto, a volte violento sino alla slealtà, ma efficace. E a riscattare “la Fallaci della destra” dal brutto tiro giocato a La Pira e a Fanfani basterebbe il coraggio con cui affrontò la morte precoce di tumore a sessant’anni da poco compiuti. Fiori per io, il libro di ricordi uscito in coincidenza con la sua scomparsa, raccolse l’apprezzamento anche di coloro che erano stati suoi acerrimi avversari.

Oggi i settimanali non sono apprezzati come una volta dai lettori e anche quelli che progressivamente fagocitarono il pubblico del “Borghese”, come “L’Europeo” o “L’Espresso”, non esistono più o sono ben lontani dai fasti di un tempo. Ma è giusto ricordare con nostalgia una rivista, e soprattutto una destra, che non c’è più, e difficilmente potrà ritornare.

Cultura (di E.Nistri). “Il Borghese” di Longanesi settimanale della migliore destra “Leo-fascista”

libri

Non c’ero mai stato

Un tempo, nelle case editrici, anche esistevano  i cosiddetti redattori. Essi seguivano l’iter dei libri; spesso intervenivano sull’autore per migliorare e definire il progetto, la stesura; correggevano l’italiano, lo stile; diventavano dei coautori ignorati dal pubblico.  Oggi si chiamano editors, non senza inutilità del cambiamento di nome. Le loro funzioni si sono allargate a misura del crescere dell’ignoranza e del velleitarismo degli scrittori; a volte gli editors hanno anche il compito di cernita e valutazione degli inediti, respingendone la gran parte; e ormai il loro raggio di azione si estende alla vera e propria creazione. Sono fabbricanti di romanzi, saggi, scrittori. Nella mia vita, ne ho conosciuto di bravissimi, sia prima che dopo il cambio di nome.

Vladimiro Bottone ha scritto due mirabili romanzi che si svolgono a Napoli, la sua città, sotto Ferdinando II. Sono dei gialli radicati nella storia e nella ricostruzione ambientale di affascinante ricchezza. Ora invece pubblica un romanzo, sempre ambientato a Napoli, ma ai giorni nostri. Un odioso personaggio lo fa abitare addirittura nel palazzo nel quale abito anche io.  E il protagonista è appunto un bravissimo editor sui sessant’anni tornato nella sua città dopo esser stato un temutissimo redattore in una grande casa editrice del nord. Ernesto Aloja abita pur egli nella mia strada, il Corso Vittorio Emanuele, e dal suo terrazzo gode la vista del Golfo e di Capri. Il protagonista di Non c’ero mai stato (Neri Pozza, pp. 399, euro 20) si è ritirato, e l’idea del suo passato lavoro lo disgusta, così come, in genere, gli scrittori ai quali ha dovuto dare una base, e a volte il completo edificio. Viene tuttavia raggiunto da una importuna trentenne, bella, fragile e insieme dominatrice, la quale gli reca un romanzo in compimento. Ernesto Aloja incomincia a incontrarsi con Lena una volta alla settimana per correggere il lavoro di una ragazza non del tutto priva di talento. Il romanzo è la storia di una ragazza nella quale non facciamo fatica a riconoscere un alter ego dell’autrice. Si svolge attraverso anche descrizioni di sesso estremo, inquietante, che solo la grazia stilistica di Bottone può far accettare senza che appaiano una gratuita volgarità.

Poi il sesso estremo, anche saffico, coinvolge lo stesso editor, costretto a esperienze nei locali di sballo giovanilistici. Ma il fatto è ch’egli è divenuto totalmente dipendente dalla ragazza. Verso i due terzi del romanzo entriamo nel vero e proprio inferno, con Aloja che, ricevendo una terribile notizia, cade quasi in fin di vita. Naturalmente, non posso svelare gli eventi conclusivi per non togliere al lettore la sorpresa, anzi le torbide sorprese così abilmente fabbricate. Posso solo esortare a leggere Non c’ero mai stato.

www.paoloisotta.it

*Da Libero Quotidiano

fantascienza

E.van Vogt

LA PROSSIMA SETTIMANA

Un colossale epico romanzo

di un titano della science fiction

  1. E. van Vogt

IL LIBRO DI PTATH

 

Nudo e privo di memoria, Ptath cammina sulla terra di Gonwonlane, spinto dall’impulso di raggiungere Ptath, la capitale del suo regno. Non sa che l’ultimo suo ricordo è quello di un campo di battaglia della seconda guerra mondiale del XX secolo, dove, nei panni del maggiore Peter Holroyd, è caduto in un’azione eroica. Ma ora si trova a duecento milioni di anni nel futuro, riemerso dal lungo percorso compiuto attraverso la specie umana, per ritrovare i contatti con le origini di colui che è diventato il Tre Volte Grande dio Ptath.

Ma il suo ritorno a Gonwonlane è desiderato da alcuni, temuti da molti. Due donne si contendono il suo controllo, la bellissima e perfida Inezia, che ha usurpato il suo potere, l’altra, la bruna e fedele L’onee, incatenata nel buio delle segrete del palazzo sulla scogliera che domina il furioso mare di Teths. Venti di guerra stanno di nuovo soffiando, attacchi e invasioni delle terribili truppe montate su pterodattili invulnerabili rischiano di rendere vuoto e inutile quel trono che Ptath deve a ogni costo riconquistare… il Nushir di Nushirvan imperversa con le sue bande di predoni alle frontiere di Gonwonlane, la Zard di Accadistran alleva legioni di feroci screer, divoratori di uomini, per conquistare il mondo conosciuto… e al di là del Fiume di Fango Bollente, nella Landa dei Cento Vulcani, il Trono di Potenza attende da millenni il ritorno del suo padrone.

Una tra le opere più grandi della science fiction di tutti i tempi… Il capolavoro stilistico e tematico di un grandissimo scrittore, nell’unica traduzione italiana completa e integrale, un libro che è assolutamente necessario leggere per capire la bellezza della science fiction.

 

Fuori collana Libra Fantastica vol. 5 – FC 005

Alfred Elton Van Vogt

IL LIBRO DI PTATH

Traduzione e introduzione di UGO MALAGUTI

Un volume di 272 pagine

Prezzo Eur 19,50

 

fantascienza

Andromeda in omaggio

Andromeda e Letterelettriche invitano tutti a rimanere a casa. Uscite solo in caso di reale necessità e fatelo prestando attenzione, prendendo tutte le precauzioni necessarie, seguendo le indicazioni fornite dal ministero della salute.

Seguendo l’esempio di altre case editrici abbiamo deciso di regalare a tutti una copia della nostra rivista di fantascienza. Speriamo possa tenervi compagnia durante questi giorni trascorsi in casa.

Il primo numero di Lost Tales Andromeda è disponibile GRATUITAMENTE fino al 31 Marzo sul sito dell’editore Letterelettriche.

Clicca QUI per scaricarlo dal sito dell’editore

Di seguito i contenuti del primo numero di Lost Tales Andromeda. Copertina realizzata da Giuseppe Festino al quale abbiamo dedicato una ricca intervista realizzata da Gianpiero Mattanza all’interno della rivista.

I contenuti di questo numero:

  • Intervista a Giovanni Mongini e Mario Luca Moretti a cura di Stefano Rizzo
  • Speciale P.K.Dick –  La svastica sul Sole – L’uomo nell’alto castello – A cura di Umberto Rossi
  • Quando gli androidi parlavano italiano di Luca Leone
  • Speciale Kaiju – a cura di Omar Serafini (contiene i due articoli precedentemente pubblicati nei primi due numeri della rivista più un articolo inedito)
  • I Classici della Fantascienza – Dangerous Visions – A cura di Antonio Ippolito
  • Intervista a Michael Moorcock – A cura di Nicola Parisi (Traduzione di Annarita Guarnieri)
  • La fantascienza degli anni ’60 e il rinnovamento culturale –  a cura di Andrea Mina, Federico Ascoli e  Daniele Savant-Aira (Intero saggio, nei primi due numeri della rivista erano state pubblicate soltanto le prime due parti)
  • Acrilici e astronavi intervista a Giuseppe Festino – a Cura di Gianpiero Mattanza
  • Le invasioni silenziose di John Wyndham – A cura di Nicola Parisi

Racconti:

  • Un risveglio movimentato di Annarita Guarnieri
  • Brivido felino di Ezio Amadini
  • Soppressata alla milanese di Francesco Nucera
  • Dimentica e ricomincia di Linda De Santi
  • Perché nulla vada perduto di Davide Camparsi (Racconto vincitore del Premio Rill)
  • Pistacchio amaro di Giulia Abbate
  • Francesco è scomparso di Pierfrancesco Prosperi

Tutti i racconti sono illustrati da Gino Carosini

 

Argomenti vari

Pausa di riflessione

La politica non è una cosa sporca, al contrario di quel che pensa e dice un banale senso comune in voga nel nostro paese. La politica la facciamo tutti e ogni giorno, consapevolmente o inconsapevolmente. Facciamo politica quando comperiamo cibi biologici dagli agricoltori o schifezze dell’industria agroalimentare zeppe di pesticidi e additivi chimici; quando scendiamo in piazza per difendere l’ambiente, protestare contro le guerre e gli armamenti, difendere i diritti di popoli aggrediti dall’Impero, o restiamo a casa a vedere la televisione che “la t’endurmenta come un cuiun” (Enzo Iannacci); quando scegliamo il treno per viaggiare o quando invece scegliamo l’auto o l’aereo; quando protestiamo contro le navi da crociera o quando andiamo invece in crociera. Eccetera.

Può essere una buona politica o una cattiva politica ma non è una politica sporca.

La politica è sporca quando si serve della manipolazione e della prepotenza per fare i propri interessi economici e/o di potere.

In Italia muoiono ogni anno di cancro centinaia di migliaia di persone. Gli ultimi dati ufficiali ci dicono 179.502 morti di cancro nel 2016ogni giorno in Italia 485 persone muoiono di cancro, e chiunque abbia visto morire di cancro una persona cara sa quanto terribile e penosa sia tale morte. Nello stesso anno in Europa sono morte di cancro quasi due milioni di persone, e il numero degli ammalati di cancro continua ad aumentare, anno dopo anno. Ma non è un’emergenza.

Dal 21 febbraio al 1 marzo sono morte in Italia 29 persone per le conseguenze del Coronavirustutti già ammalati di malattie ben più gravi (“tutti i deceduti avevano patologie pregresse”) e quasi tutti oltre gli ottanta anni di età.

Dal 21 febbraio al 2 marzo sono morte in Italia di cancro un po’ più di 4300 persone, e di queste dal 29 al 7 per cento, a seconda del tipo di tumore, aveva meno di 49 anni; dal 35 al 5 per cento, a seconda del tipo di tumore, aveva tra i 50 e i 69 anni. Il che vuol dire, se la matematica non è un’opinione, che una grande percentuale dei morti di tumore muore anzitempo. Ma non è un’emergenza.

Quanti bambini morti di cancro? Difficile trovare i dati, l’unico recente che ci viene fornito facilmente dall’AIRC (Associazione Italiana Ricerca Cancro) dice che nel 2018 in Europa i bambini malati di cancro erano tra i 300.000 e i 500.000.

Perché non c’è l’emergenza cancro? Perché il cancro è una malattia del sistema. Di un sistema che è padrone dei media e che domina la politica, e che quindi non conviene a nessuno, nei media e nella politica, mettere in discussione.

Invece, i virus sono una manna del cielo per chi vuole fare ricatti politici e restringere le libertà individuali e collettive.

Il cancro è una malattia prodotta dai pesticidi, dai conservanti a base di nitrati e di monossido di azoto, dal benzene, dagli ftalati della plastica, dalle 80.000 sostanze sintetiche sparpagliate nell’ambiente del pianeta. E’ una malattia di un progresso basato sullo sfruttamento senza limiti delle risorse e degli esseri viventi, sulla ricerca senza limiti e a qualsiasi costo del massimo profitto economico.

I coronavirus sono “tipi di virus che attaccano le vie respiratorie… I medici li associano a comuni raffreddori… tuttavia possono essere anche alla base di sviluppi più gravi…”

“Un virus che ha una mortalità ancora più bassa di un virus influenzale… I morti erano persone già malate, di cancro o con malattie croniche cardio respiratorie, avrebbe potuto ucciderle anche un virus influenzale” (Vincenzo D’Anna, presidente Ordine Nazionale Biologi).

Nella provincia di Hubei, quella dove si trova la ormai famigerata città di Wuhan, ci dicono che la mortalità complessiva tra gli ammalati in seguito all’infezione da Coronavirus è del 2,9 % nel Hubei, dello 0,4% (!!!) nel resto della Cina.

Dato che lo Hubei e la città di Wuhan sono una delle zone della Cina con l’aria più inquinata, un mix di carbone bruciato e gas di scarico, un tipo di inquinamento nuovo e inedito, che gli scienziati cinesi stanno studiando e di cui uno studio Cina-USA cerca di capire le conseguenze sulla salute umana (“la chimica dell’inquinamento dell’aria urbana in Cina non ha precedenti), penso che un tribunale di gente onesta e sensata assolverebbe il coronavirus “perché il fatto non sussiste”. Mi domanderei anche quale sia il tasso di mortalità tra gli abitanti dello Hubei non affetti dal coronavirus.

E allora? Dov’è l’epidemia, dove sono i rischi per la salute pubblica (a parte l’inquinamento dell’aria della pianura padana che, quello sì, dovrebbe allarmare gli amministratori della zona con l’aria più inquinata d’Europa)? Da cosa nascono l’allarme, il terrore, gli inquietanti provvedimenti liberticidi, il can can mediatico?

Il 27 febbraio la situazione si è chiarita, il mistero è stato svelato: “Salvini, governo di emergenza senza Conte”; Fuori onda di Fontana a Gallera: “Oggi mi ha mandato un messaggino di sostegno anche Renzi, siamo arrivati proprio… il suo odio per Conte…”.

Lombardia, Veneto, Emilia Romagna hanno adottato misure da coprifuoco (divieto di assembramento! L’ultima volta che è successo c’era il fascismo in Italia, forse qualcuno ne ha nostalgia). I cittadini sono diventati ostaggi di un ricatto politico. Un governo pavido, diviso, un Don Abbondio della politica, ha cominciato a reagire (male) al decimo secondo. I mediaservi hanno fiancheggiato la parte che sembrava più forte, in attesa di vedere come si metteva la parata. El pueblo ha reagito come ci si aspettava: panico da virus senza se e senza ma di una percentuale significativa, rabbia e sconforto di una percentuale altrettanto o forse più significativa ma che non aveva parola né visibilità, anche perché le era stato proibito di riunirsi e di protestare.

E questo sì, fa davvero paura.

Come fa paura lo sbandieramento del vaccino prossimo venturo da parte di una multinazionale farmaceutica americana. Ma come, i virus delle vie respiratorie (virus RNA) di cui fanno parte i tanto diffamati coronavirus, mutano tanto rapidamente che, da uno studio del Center for Disease Control and Prevention di Atlanta risulta che l’efficacia della vaccinazione annuale contro l’influenza oscilla tra il 10%  e il 60%, e questi fanno oggi un vaccino che sarà pronto fra un anno, per un virus che in un anno muterà quattro o più volte?

Fa paura, oltre all’onnipresenza dei mercanti di farmaci sfornati sempre più velocemente e con sempre meno controlli, il fatto che la minaccia dei virus, persino dei virus del raffreddore, gridata e amplificata dai media, sia diventata oggi un’arma di limitazione delle libertà democratiche, di distrazione di massa.

Ci dicono che c’è una crisi economica provocata dal coronavirus. La crisi economica c’era già, anche se in questo paese nessuno ce lo diceva. Il 17 gennaio 2019 il sito finanziario Bloomberg intitolava “Dimenticate la guerra dei dazi: la Cina è già in crisi”, e sullo stesso tono decine di siti economici nel mondo.

Del resto già da maggio 2019 i siti economici italiani parlavano di crisi economica globale, citando la capo economista del Fondo Monetario Internazionale.

Il coronavirus si dimostra di nuovo innocente ma dargli la colpa della crisi equivale a nascondere le motivazioni reali della crisi di un sistema economico basato, oltre che su consumi e sprechi furibondi, sui debiti delle imprese, sui folli finanziamenti degli stati e delle istituzioni internazionali alle multinazionali, sulla stampa di dollari e sui bassi tassi di interesse che hanno permesso pericolose speculazioni finanziarie e un aumento del debito globale che è arrivato alla stratosferica cifra di 244.000 miliardi di dollari.

E, infine, un sistema che si basa sullo sfruttamento illimitato della natura e del lavoro umano non può che finire per autodistruggersi, poiché distrugge le sue stesse risorse e i suoi “consumatori”.

Certo, i politici che hanno messo in quarantena un intero paese hanno dato il loro piccolo contributo a rallentare per un attimo la corsa economica (non quella dei supermercati e dell’agroalimentare o del parafarmaceutico), ma sono ininfluenti per quel che riguarda la crisi economica globale, che pare sia solo al suo inizio.

Dire la verità sulla crisi vorrebbe dire prendere in considerazione la necessità di cambiare radicalmente economia e società, di uscire dal capitalismo, e allora ben venga il virus espiatorio, che ottunde intelligenze e percezioni.

Ultimo effetto (ma non in ordine d’importanza) auspicato dai prestigiatori della disinformazione: farci dimenticare la crisi climatica e l’emergenza ambientale, le vere minacce alla sopravvivenza umana.

Mentre le falde si svuotano, gli insetti impollinatori spariscono, le tempeste ci sommergono, i raccolti vanno alla malora (altro che fare incetta di alimenti, cominciate a coltivarveli!), decine di milioni di ettari di foreste bruciano o vengono criminalmente abbattute, si crea il panico su un tipo di virus che è in giro per il mondo e si attacca agli umani almeno dal 1960, con le inevitabili mutazioni come tutti i virus, e che provoca l’influenza.

Il mondo è in mano ai folli, a quel tipo umano che nei film sul Titanic correva nella cabina già allagata per recuperare i soldi e poi annegava, e l’ultima cosa di lui che si vedeva sopra le onde era la mano che li stringeva.

Cerchiamo di non farci contagiare da una simile follia, cerchiamo di non annegare.

 

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