geopolitica

Fra terra e mare

Guido Reni- Il ratto di Europa

Egli, tuttavia, pur ammirando la dottrina Monroe, che secondo la sua visione delle cose aveva consentito agli Stati Uniti di assurgere al primato internazionale, costituendosi come un mix di indipendentismo e sovranità (isolazionismo?) e interventismo mirato in spazi extranazionali, riteneva che gli Stati Uniti, pur non essendo, a differenza dell’Inghilterra, un fattore di “dissolvimento”, non potevano rappresentare quella che per lui doveva essere la figura del katèchon, capace di frenare il processo dissolutivo dell’Ecumene occidentale, e per due gravi motivi: l’incapacità dimostrata nel recidere il cordone ombelicale dalla madrepatria britannica e al contempo l’ideologia accarezzata di un “nuovo secolo americano”.

Ecco che proprio questo farebbe declassare agli occhi di Schmitt gli Stati Uniti, da possibile katèchon, al ruolo addirittura di “ acceleratore involontario” della definitiva dissoluzione della società occidentale.

La concezione marittima del potere, come portata avanti dagli inglesi, per Schmitt, infatti, aveva avuto un ruolo determinante nella fine della concezione continentale, dunque terrestre, dello Ius publicum Europaeum e dell’ordine tradizionale del Vecchio continente, tendendo essa a radicalizzare i conflitti fino a promuovere l’ideologia di una “guerra totale” , che più non si limita al mero scontro fra eserciti belligeranti, ma porta alla “criminalizzazione” di interi popoli, e addirittura degli stati che commerciano o in qualche modo sono accusati di sostenere l’economia del nemico.

Schmitt paragona l’Inghilterra a una “nave” – a una “nave pirata” ad esser precisi – del resto, gran parte del suo impero è stato costruito grazie ad azioni che non tenevano in nessun conto alcuna legge e il Diritto delle genti. Veri e propri atti di pirateria di schiumatori e buccaneers, come quelli di Francis Drake, poi divenuto Sir, hanno rappresentato il suo quasi consueto modus operandi.

Era pressappoco quanto si stava già profilando sullo scenario di guerra cui Schmitt sta assistendo. Siamo per la precisione nell’anno di “grazia” 1942, quando, sbarcando in Irlanda, giunge in Europa il primo contingente militare statunitense, e la guerra dopo aver attraversato gli elementi terra e aria, si appresta ad interessare l’elemento acqua, facendosi poi addirittura sottomarina.

http://www.barbadillo.it/76823-cultura-carl-schmitt-fra-terra-e-mare-alla-ricerca-di-un-nomos-per-la-terra/

libri

Benedet d’al marcà

Due parole di introduzione: l’articolo proviene dall’archivio di bondeno.com ed è stato scritto da un emigrato di Bondeno che da più di vent’anni risiede e lavora negli USA come docente di italiano all’università.

Oggi, 11 settembre 2007, resto in casa e tengo spenta la radio. Non mi importa se New York è più o meno sicura di sei anni fa dagli attacchi aerei perché so che tra gli otto milioni di persone dell’isola di Manhattan è fin troppo facile imboscarsi per chiunque, terrorista o meno. Apro un vecchio numero del New Yorker e trovo altre preoccupazioni: un economista sostiene che la democrazia è da abolire.
Bryan Caplan insegna alla George Mason University e ha appena pubblicato il libro “The Myth of thè Rational Voter: Why Democracies Choose Bad Politics” (Princeton University Press). Secondo Caplan, gli elettori sono un gregge di pecore che vota senza razionalità, a seconda dei tanti preconcetti dominanti e in chiaro contrasto con la competenza di chi invece dovrebbe prendere le decisioni fondamentali, cioè gli economisti. Per esempio, per la gente comune il prezzo della benzina è troppo caro, mentre per gli economisti può andare. Oppure, per la gente comune i salari degli impieghi creati di recente negli Stati Uniti per ovviare alla disoccupazione sono bassi, per gli economisti, invece, possono andare (se l’offerta supera la domanda, i prezzi si abbassano). Se per la gente comune i salari dei grandi dirigenti finanziari sono scandalosamente alti, per gli economisti van bene così (ci mancherebbe altro: sono i loro compagni di scuola…).
Il punto di Caplan è che nessuno ragiona veramente come un economista: nessuno, votando, pensa solo al proprio interesse e basta, come è giusto e doveroso in un’economia di mercato, dove il vantaggio del singolo diventa a lungo andare il vantaggio di tutti. Questa è la vera razionalità; perciò bisognerebbe insegnare
più economia nelle scuole e meno letteratura. E una grande scoperta, per rne, sapere che dare un calcio nel culo a chi si sa che non può restituirtelo (delizioso e razionalissimo Leonardino in terza elementare!), rubare un’automobile solo perché non è chiusa a chiave o non ha l’antifurto, ammazzare qualcuno per pigliarsi i suoi averi se si riesce a far sparire il cadavere e a restare impuniti non solo è sommamente razionale (lo dicono gli economisti), ma addirittura utile alla comunità, visto che il vantaggio del singolo ricade sempre come effetto su tutti. E infatti sarebbe ora di premiare la Camorra per l’indotto economico che produce e senza il quale il nostro paese probabilmente non sopravviverebbe.
Qualche anno fa un professore di teologia della Harvard Divinity School osservava che, leggendo il Financial Times, gli bastava sostituire “Market” con “God” per ottenere qualcosa di simile a San Tommaso. Il Mercato vede e provvede, per le sue vie oscure, al benessere di tutti, ma soprattutto di chi segue le sue leggi, osserva i suoi comandamenti e medita la sua parola di giorno e di notte, perché egli è via, verità e vita. Pochi giorni fa m’è capitato di prendere il caffè assieme a due economisti che avevano voglia di parlare italiano: un israeliano in carriera e un indiano molto famoso. In poco tempo attorno all’indiano si fece un crocchio di francesi, svizzeri, tedeschi, danesi e altro. Poi passò un giovane italo-tedesco, che entrò in fretta e furia (è al mio livello di carriera, ma prende il doppio di me); poi si misero a sparlare di un catalano. Mi sembrava di essere nell’abbazia del Nome della Rosa, col capitale al posto di Dio, naturalmente, e l’inglese al posto del latino. Loro decidevano i destini del mondo e io ero il povero maestrino d’italiano incompetente, a cui al massimo toccava di votare per i soliti quattro fantocci che alla fine, da destra o a sinistra, si fanno assistere e si rivolgono… agli economisti!
La Chiesa non è un’istituzione democratica. Dio ha detto a Pietro che era pietra e su quella pietra si sarebbe fondata la Chiesa; non ha chiesto ai fedeli di eleggere la loro guida. Perché dovrebbe esserlo il Mercato, che della Chiesa ha preso il posto? Perché non dovrebbe privilegiare chi tutti i giorni medita e riflette sul suo andamento e si comporta come razionalmente si dovrebbe comportare, cioè inseguendo il proprio interesse e basta (contribuendo così all’interesse generale)? A New York lo sanno anche i preti cattolici. Nel suo “Diario americano” (Boringhieri), Giulio Sapelli dice che a messa, a New York, si trova gente di ogni condizione sociale: dallo spazzino irlandese o italiano (quelli che cantano il mattino) alla lavandaia messicana al giovane in carriera a Wall Street. Mentre celebra, il sacerdote è teso e cupo perché invoca un unico destino e un unico padre celeste: di fronte a Dio siamo tutti uguali. Ma finita la messa (in scena), ecco che il prete va alla porta e saluta i fedeli che escono. Ed è nel saluto finale del prete che si vede chiaramente chi appartiene all’inferno della povertà, chi al purgatorio del lavoro sottopagato e chi è invece Benedetto dal Mercato.

Andrea Malaguti

Nota: oltre a quello di Caplan qui è citato anche un libro di Giulio Sapelli di cui si è fatto il nome come possibile presidente del consiglio durante le trattative per il nuovo governo M5S-Lega.

lavoro

Il lavoro

Nel lontano 2005 scrivevamo su bondeno.com:
1° maggio, per quale lavoro?
Data: Mercoledì, 27 aprile 2005 alle 01:00:00 CEST
Argomento: Lavoro
Mi sembra che ultimamente il tam tam mediatico ci sposti da ricorrenza a ricorrenza senza mai interrogarsi se queste abbiano ancora un senso, oppure se il significato originario si sia nel frattempo perduto o sia profondamente cambiato. Proviamo a domandarcelo nel caso del lavoro con la scorta di tre saggi di Luciano Gallino.
:
1) Se tre milioni vi sembran pochi. Sui modi per combattere la disoccupazione (euro 14);
2) La scomparsa dell’Italia industriale (euro 10,20);
3) II costo umano della flessibilità (non più disponibile).
Proviamo a riassumere le idee portanti di questi libri, ovviamente senza nessuna pretesa di essere esaustivi, ma semplicemente per fornire uno stimolo alla loro lettura o semplicemente al ripensamento di alcune false convinzioni del tipo:
è una fase transitoria, nasceranno nuovi posti di lavoro,
ci penserà il terziario,
il futuro è nel lavoratore atipico e flessibile, colpa dello stato sociale ecc.
A tutto questo Gallino risponde con cifre e dati individuando cause sicure di perdita del lavoro con l’automazione nelle fabbriche e negli uffici,  la riorganizzazione del lavoro, la delocalizzazione, l’importazione crescente da nazioni in via di sviluppo, l’economia sommersa, la finanziarizzazione del mondo. Giusto due parole su quest’ultimo dato (e, già che ci siete potete sostituire il titolo mancante con il più recente “Finanzcapitalismo , euro 10,62): nel mondo le transazioni di denaro scritturale (leggi: sulla carta, o meglio, sullo schermo del computer) superano ogni giorno di 50 volte quelle sulle merci reali!
In questo contesto l’Italia si presenta come il classico vaso di coccio avendo perso o fortemente ridotto la sua capacità produttiva in settori chiave dell’industria come l’informatica e la chimica. “L’Italia industriale è uscita quasi completamente da mercati in continua crescita quali l’elettronica di consumo. Né è pervenuta a far raggiungere un’adeguata massa critica a industrie dove ancora possiede un grande capitale di tecnologia e risorse umane come l’aeronautica civile. Dove essa esisteva, l’ha frantumata: è avvenuto con l’elettromeccanica ad alta tecnologia. Resta in piedi l’ultimo settore della grande industria, l’automobile, la cui crisi procede peraltro verso esiti al momento (2003) imprevedibili”.

[Dopo la morte di Marchionne adesso sappiamo tutto n.d.r.]

All’obiezione che in Italia abbiamo un fiorire di piccole e medie imprese, Gallino, dati alla mano, dimostra che in 20 anni non hanno generato nuova occupazione e mancano delle risorse necessarie per fare ricerca e sviluppo, che sono le sole risorse su cui si può contare a lungo termine per rimanere competitivi. Le strade per la competitività vengono invece cercate dalle imprese attraverso l’abbattimento dei costi del lavoro, utilizzando le nuove norme in materia di “flessibilità.
Peccato che “le risorse umane”, come si chiamano in gergo aziendale, e le loro famiglie abbiano necessità di mangiare ogni giorno e la riassunzione, dopo i 40 anni, diventi sempre più problematica, riguardi lavori meno retribuiti e comunque a tempo determinato o parziale. Il rischio concreto è che, anche in questo campo, ci si avvii verso una società dei 4/5: una società in cui un quinto della forza lavoro sia stabilmente occupata e detenga l’80% del reddito e gli altri litighino per il resto; esattamente come accade a livello globale dove un quinto dell’umanità detiene le risorse e gli altri sperano di entrare a farne parte (ma le regole del gioco le decide qualcun altro).

NOTA del 2018: Nel frattempo abbiamo avuto il job act di Renzi e il decreto dignità di Di Maio, ma non sembra che abbiano letto questi libri

illustrazione

Il giornalino della Domenica

Musica

La domenica delle salme

Testo

Tentò la fuga in tram
verso le sei del mattino
dalla bottiglia di orzata
dove galleggia Milano
non fu difficile seguirlo
il poeta della Baggina
la sua anima accesa
mandava luce di lampadina
gli incendiarono il letto
sulla strada di Trento
riuscì a salvarsi dalla sua barba
un pettirosso da combattimento
I Polacchi non morirono subito
e inginocchiati agli ultimi semafori
rifacevano il trucco alle troie di regime
lanciate verso il mare
i trafficanti di saponette
mettevano pancia verso est
chi si convertiva nel novanta
ne era dispensato nel novantuno
la scimmia del quarto Reich
ballava la polka sopra il muro
e mentre si arrampicava
le abbiamo visto tutto il culo
la piramide di Cheope
volle essere ricostruita in quel giorno di festa
masso per masso
schiavo per schiavo
comunista per comunista
La domenica delle salme
non si udirono fucilate
il gas esilarante
presidiava le strade
la domenica delle salme
si portò via tutti i pensieri
e le regine del ‘’tua culpa”
affollarono i parrucchieri
Nell’assolata galera patria
il secondo secondino
disse a ‘’Baffi di Sego” che era il primo
si può fare domani sul far del mattino
e furono inviati messi
fanti cavalli cani ed un somaro
ad annunciare l’amputazione della gamba
di Renato Curcio
il carbonaro
il ministro dei temporali
in un tripudio di tromboni
auspicava democrazia
con la tovaglia sulle mani e le mani sui coglioni
voglio vivere in una città
dove all’ora dell’aperitivo
non ci siano spargimenti di sangue
o di detersivo
a tarda sera io e il mio illustre cugino De Andrade
eravamo gli ultimi cittadini liberi
di questa famosa città civile
perché avevamo un cannone nel cortile
La domenica delle salme
nessuno si fece male
tutti a seguire il feretro
del defunto ideale
la domenica delle salme
si sentiva cantare
quant’è bella giovinezza
non vogliamo più invecchiare
Gli ultimi viandanti
si ritirarono nelle catacombe
accesero la televisione e ci guardarono cantare
per una mezz’oretta
poi ci mandarono a cagare
voi che avete cantato sui trampoli e in ginocchio
coi pianoforti a tracolla travestiti da Pinocchio
voi che avete cantato per i longobardi e per i centralisti
per l’Amazzonia e per la pecunia
nei palastilisti
e dai padri Maristi
voi avete voci potenti
lingue allenate a battere il tamburo
voi avevate voci potenti
adatte per il vaffanculo
La domenica delle salme
gli addetti alla nostalgia
accompagnarono tra i flauti
il cadavere di Utopia
la domenica delle salme
fu una domenica come tante
il giorno dopo c’erano i segni
di una pace terrificante
mentre il cuore d’Italia
da Palermo ad Aosta
si gonfiava in un coro
di vibrante protesta
Compositori: Fabrizio De Andre / Mauro Pagani
Testo di La domenica delle salme © Universal Music Publishing Group
autori, Letteratura

Accordi eretici

Era tutto quello che avevo dentro, e che sentivo di dover dire. È una canzone un po’ rabberciata, perché la musica la abbiamo scritta dopo, la abbiamo cucita sopra il testo, e si sente. L’ho scritta in modo piuttosto colto, anche per distanziarla da Don Raffae’. Sciascia diceva che la canzone, per essere utile, deve essere scritta da un uomo di cultura che sappia, però, esprimersi in maniera popolare. Però il disco mi sembrava un po’ fragilino, ed allora ho sentito il bisogno di impiegnarmi, e l’ho fatto, svolazzando anche in alto. Ci sono molti riferimenti letterari. Ho voluto anche sfoggiare un po’ di cultura, perché in pochi, magari, hanno letto Oswald De Andrade. Ma non è sfoggio in realtà, perché mi è venuta piuttosto spontaneamente: sai, molto dipende dai panni di cui ci si veste quando si scrive. Ti metti nei panni di Don Vito Cacace e ti viene Don Raffae’, ti metti nei panni di chi vuol fare poesia e ti viene La domenica delle salme. Quanto al riferimento alla Baggina, non è la prima volta che mi capita di presagire qualcosa nelle mie canzoni.

Il riferimento a Curcio è preciso. Io dicevo semplicemente che non si capiva come mai si vedevano circolare per le nostre strade e per le nostre piazze, piazza Fontana compresa, delle persone che avevano sulla schiena assassinii plurimi e, appunto, come mai il signor Renato Curcio, che non ha mai ammazzato nessuno, era in galera da più lustri e nessuno si occupava di tirarlo fuori. Direi solamente per il fatto che non si era pentito, non si era dissociato, non aveva usufruito di quella nuova legge che, certamente, non fa parte del mio mondo morale… Il riferimento poi all’amputazione della gamba, voleva essere anche un richiamo alla condizione sanitaria delle nostre carceri.

[In Doriano Fasoli, Fabrizio De André. Passaggi di tempo, pp. 68-69]

D. Perché l’avete scritta?

R. Volevamo esprimere il nostro disappunto nei confronti della democrazia che stava diventando sempre meno democrazia. Democrazia reale non lo è mai stata, ma almeno si poteva sperare che resistesse come democrazia formale e invece si sta scoprendo che è un’oligarchia. Lo sapevamo tutti, però nessuno si peritava di dirlo. È una canzone disperata di persone che credevano di poter vivere almeno in una democrazia e si sono accorte che questa democrazia non esisteva più.

D. È dunque un atto d’accusa.

R. Sicuramente, e lo è anche nei nostri confronti. C’è una tirata contro i cantautori che avevano una voce potente per il vaffanculo, e invece non l’hanno fatto a tempo debito. Io credo che in qualche maniera la canzone possa influire sulla coscienza sociale, almeno a livello epidermico, Noto che ci sono tante persone che vengono nel camerino alla fine di ogni spettacolo e che mi dicono: siamo cresciuti con le tue canzoni e abbiamo fatto crescere i nostri figli con le tue canzoni. E non so fino a che punto sia una cosa giusta. Credo che in qualche misura le canzoni possano orientare le persone a pensare in un determinato modo e a comportarsi di conseguenza.

[Intervista di Luciano Lanza (1993). Ora in Signora Libertà, Signorina Anarchia, p. 17]

È il ritratto dei diversi aspetti dell’Italia e dell’Occidente in genere alla fine degli anni Ottanta. Ancora una volta De André fa inconsciamente la parte del profeta con la chitarra, citando, all’inizio, la Baggina, cioè la Casa di riposo per anziani Pio Albergo Trivulzio di Milano, che nel giro di poco tempo diventerà celeberrima; di lì partirà la prima denuncia per corruzione di tangentopoli. Si passa poi ai semafori, occupati da immigrati polacchi con le loro spazzole da lavavetri, i loro mercatini e i loro traffici di prostituzione, per arrivare ai trafficanti di saponette diretti all’Est. Subito dopo vediamo “la scimmia del quarto Reich” simboleggiare la preoccupante ripresa di movimenti neonazisti in Germania e un po’ in tutta Europa; infine la piramide di Cheope, monumento tanto imponente quanto inutile, ricostruito oggi “schiavo per schiavo / comunista per comunista”. Uno sguardo è riservato ad una pagina ancora sanguinante del nostro recente passato: il terrorismo. Renato Curcio, il capo storico delle Brigate Rosse, è ritratto come un carbonaro, un prigioniero politico ancora in carcere, nonostante non abbia mai ammazzato nessuno, perché non ha voluto rinnegare il proprio passato. Il riferimento a Pietro Maroncelli attraverso l’amputazione della gamba riporta l’ambientazione nel secolo scorso, come a dire che le condizioni sanitarie in Italia, e in particolare nelle carceri, non sono migliorate poi molto. Nella canzone c’è anche posto per condannare alcuni colleghi, troppo propensi a cantare o a scrivere canzoni cambiando continuamente cavallo da battaglia a seconda dell’argomento più alla moda: “voi che avete cantato per i longobardi e i centralisti / per l’Amazzonia e per la pecunia”, denuncia tagliente, questa, e fatta da chi sicuramente aveva tutto il diritto di farla. Tra questa folla di personaggi passano, quasi non visti, gli addetti alla nostalgia, tra i quali “il cadavere di Utopia”: utopia della libertà, utopia dell’anarchia, cresciuta nel ’68 e morta in mezzo alla città moderna e civile, dove chi vuole rimanere libero lo può restare soltanto se ha un cannone nel cortile.

[Matteo Borsani – Luca Maciacchini, Anima salva, p. 147-148]

Ecco un esempio di come anche il mondo della musica possa esprimere forti motivazioni di tipo morale e politico. Nell’albume Le nuvole, del 1990, che la critica specializzata considera unanimamente un capolavoro della moderna canzone d’autore, Fabrizio De André ha inserito (tra tante altre invenzioni verbali e musicali) una polemica e tagliente invettiva, scritta in collaborazione con l’etnomusicologo Mauro Pagani, contro lo sfascio dell’Italia contemporanea (o, forse, di quella che potrebbe essere l’Italia in un immediato futuro).

Il testo possiede una sua valenza specifica, che è possibile cogliere anche indipendentemente dall’accompagnamento strumentale […]. Ricordiamo comunque che la strumentazione è limitata ad alcuni elementi essenziali: chitarra, violino e “kazoo” (un piccolo tubo di canna al cui interno una membrana vibra emettendo un suono aspro; si tratta di uno strumento “povero”, usato nei riti magici dell’Africa occidentale e diffuso nel sud degli Stati Uniti, poi adottato da jazzisti e cantanti folk).

L’esecuzione musicale, vibrante e quasi angosciosa (ad un certo punto si avverte anche il sibilo di una sirena), si chiude con un assordante canto di cicale, che possiamo interpretare in due modi: come elemento di ulteriore polemica dell’autore nei confronti di una umanità che – nonostante tutto – vuole continuare irresponsabilmente a divertirsi, o come allusione al fatto che ogni forma di protesta contro i pericoli che ci sovrastano è ormai ridotta a un inutile e monotono canto, un fastidioso e petulante cicaleccio in sottofondo, del quale nessuno quasi più si accorge.

Dopo una strofa introduttiva (vv. 1-12), che ci presenta un uomo in fuga in una spettrale alba milanese, il testo si snoda attraverso tre segmenti di disuguale lunghezza (vv. 13-29, 38-58, 67-81), intervallati da un triplice ritornello di otto versi (vv. 30-37, 59-66, 82-89; il primo verso di ognuno è sempre uguale) e suggellati da una quartina di chiusura (vv. 90-93), che richiama vagamente il classico congedo della canzone petrarchesca. All’interno di questi otto segmenti complessivi, le scansioni narrative si susseguono ad intervalli di quattro versi (vv. 1-4, 5-8, 9-12, ecc.); si sottraggono a questa misura fissa soltanto due blocchi narrativi di cinque versi (vv. 25-28 e 42-46) e l’intero segmento dei vv. 67-81. Tali precisazioni ci sembrano necessarie per capire meglio il senso del componimento, del tutto privo di segni interpuntivi (sono soltanto segnalati col trattino i discorsi dei vv. 41, 51-54, 65-66, 72-81).

Andrà sottolineato anche, per un’ulteriore definizione degli aspetti formali del testo, l’uso della rima o, più frequentemente, dell’assonanza, tipica dei componimenti destinati ad essere musicati. De André ha sostenuto in un’intervista che l’uso della rima nasce dal bisogno di creare già nei versi un’unità armonica, un effetto sonoro indipendente da quello creato dalla melodia e dal canto. Ciò è particolarmente importante quando nella canzone (come in questo caso) si voglia privilegiare il contenuto: la rima e l’assonanza, infatti, servono a far sì che i versi rimangano meglio impressi nella memoria.

Il testo ci presenta dunque, in un accumulo di apparente incoerenza, lo scenario cupo di uno sfacelo imminente; lo stesso titolo, che stravolge la denominazione di una festosa ricorrenza della cristianità, è indicativo del senso di abbandono, di corruzione e di morte che incombe sulla realtà. Anziché essere il tradizionale giorno della spensieratezza, la Domenica celebra qui i momenti di una crisi irreversibile, fino al disfacimento finale delle salme delle vittime e alle esequie, paradossalmente dolci (cfr. i flauti del v. 84), degli ideali utopici di una società perfetta e felice.

I riferimenti, non sempre decifrabili con sicurezza, appaiono immersi in una calma sinistra e allucinante, in un caos metropolitano di folle anormalità (nella registrazione musicale si avverte anche in sottofondo, in corrispondenza dei vv. 59-66, il suono lacerante di una sirena): il crollo delle ideologie, la morte dei profughi, la folle allegria di chi ancora si illude, la retorica dei discorsi politici, i sussulti di un’estrema difesa individuale nell’imminenza della catastrofe (vv. 55-58), il dissolversi dei miti prima della pace terrificante (v. 89) che normalizzerà ogni cosa.

Il senso della resa collettiva viene espresso con un linguaggio che spazia dalla citazione colta (vv. 40, 65) all’espressione scurrile (vv. 15, 24, 50, 71, 81). Il tono prevalente è quello del duro sarcasmo e dell’aspra denuncia, uniche armi rimaste a chi può soltanto essere testimone dell’immenso naufragio della nostra cosiddetta civiltà, che ha provveduto ad annullare ogni voce di dissenso e a livellare ogni forma di antagonismo.

Ci sembra comunque che il testo esprima anche un convincimento di segno positivo. Se c’è ancora una coscienza civile, e se essa ancora riesce a provare rabbia e indignazione, non deve chiudersi in sé, nelle catacombe (v. 68). È vero, forse non è più possibile cambiare il mondo, come si intendeva fare nei tumultuosi decenni appena trascorsi; ma almeno evitiamo di pensare soltanto ai fatti nostri, perché l’esercizio dell’ironia feroce può essere l’antidoto più efficace contro lo squallore dilagante e l’arrogante ipocrisia del potere”.

[Paolo Briganti – Walter Spaggiari, Poesia & C., pp. 396-400]

Una durissima invettiva sulla falsa pace sociale raggiunta subito dopo la caduta del Muro di Berlino […]. Nel pezzo, per inciso, Fabrizio ha una delle sue intuizioni citando la Baggina, così come viene chiamata a Milano la Casa di riposo per anziani Pio Albergo Trivulzio. Due anni dopo, da lì, sarebbe esploso il caso di Tangentopoli che avrebbe spazzato i vecchi partiti.

Perché quella scimmia del Quarto Reich che balla sopra il muro? “Sono molto preoccupato, in Germania Est ci sono state violazioni di tombe ebraiche”, spiegava allora l’autore, “ed è una cosa che si sta diffondendo in tutta Europa; mi sembra un rigurgito nazista”. Tra epica e lirica c’è anche la piramide di Cheope: “Un monumento aberrante e inutile, direi berlusconiano”. Nella famosa domenica delle salme vengono inviati “fanti, cavalli, cani e un somaro ad annunciare l’amputazione della gamba di Renato Curcio, il carbonaro”… Dice De André: “Curcio non si è dissociato, non ha approfittato di questa regola non morale; e vedo circolare gente che ha tanti omicidi sulle spalle… Curcio non ha ammazzato nessuno. E d’altra parte non vorrei che gli succedesse quanto accadde a Maroncelli nel carcere austriaco. Anche perché tengo a sottolineare l’aspetto sanitario delle carceri italiane!”.

Di chi è la colpa? De André si getta nel mucchio anche se non ha certo niente da spartire con i cantautori che hanno cantato “sui trampoli e in ginocchio / coi pianoforti a tracolla / vestiti da Pinocchio”; con chi ha cantato “per i longobardi, i centralisti, per l’Amazzonia, la pecunia nei palastilisti”.

Erano gli anni dell’edonismo reaganiano e, in Italia, del craxismo. Al Palatrussardi alcuni socialisti intervenivano a tutti i grandi concerti in compagnia di “bambole fasciate di rosso”.

[Alfredo Franchini, Uomini e donne di Fabrizio De André, pp. 55-56]

La domenica delle salme è un grande affresco in stile Bruegel: in esso la supposta fine della storia viene smascherata per quello che è: un’altra delle tante menzogne che i poteri utilizzano per celare l’avidità oscena del loro agire.

De André li vede tutti, non ne perde uno: “i trafficanti di saponette [che mettono] pancia verso est”, “la scimmia del quarto Reich [che balla] la polka sopra il muro”, “il ministro dei temporali / in un tripudio di tromboni / [che auspica] la democrazia / con la tovaglia sulla mani e le mani sui coglioni”.

La “fine della storia” è anche il tempo in cui “la piramide di Cheope / [vuole] essere ricostruita in quel giorno di festa / masso per masso / schiavo per schiavo / comunista per comunista”; tanto non c’è ribellione: “La domenica delle salme / non si udirono fucilate / il gas esilarante / presidiava le strade / la domenica della salme / si portò via tutti i pensieri / e le regine del tua culpa / affollarono i parrucchieri”. E poi, per essere liberi, basta avere “un cannone nel cortile”. Sembra di vedere in questa umanità del dopo-genocidio la carta del Matto dei tarocchi, gli occhi al cielo e un piede già nel baratro a simboleggiare l’irresponsabilità di chi, accompagnando “il cadavere di Utopia”, canta “quant’è bella giovinezza / non vogliamo più invecchiare”.

E tra i responsabili di questa “pace terrificante”, gli stessi cantautori: “voi che avete cantato sui trampoli e in ginocchio / coi pianoforti a tracolla vestiti da Pinocchio / voi che avete cantato per i longobardi e i centralisti / per l’Amazzonia e per la pecunia / nei palastilisti / e dai padri Maristi / voi avevate voci potenti / lingue allenate a battere il tamburo / voi avevate voci potenti / adatte per il vaffanculo”.

Come non rivedere, quasi fosse un vecchio documentario, le immagini di chi, nei decenni scorsi, guadagnava un applauso in più (con il corrispettivo aumento del conto in banca), recitando solidarietà con saluti a pugno chiuso e che oggi, magari, l’applauso in più e l’ingrossamento del portafoglio lo guadagna con monili tricolori all’occhiello della giacca?

Ma come, insieme a loro, non vedere anche tutti coloro i quali applaudivano o si indignavano a comando e che continuano ancora oggi, impotenti comparse, a “gonfiarsi” nelle piazze (il popolo delle piazze) e davanti ai tribunali “in un coro / di vibrante protesta” quando la politica della società dello spettacolo lo richieda – magari, guarda caso, proprio all’ora del TG?

Ma le nuvole, si sa, “vanno / vengono”, sono il simbolo arcaico di un divenire incessante sul quale l’uomo non ha alcun potere se non quello di imparare a “guardare” anche con la luce alterata di un cielo oscurato.

Ed è quello che Fabrizio De André fa con Anime salve (1996), la sua produzione più recente, dando ancora voce, e quindi spessore di dignità, a chi tra le nuvole deve comunque vivere subendone, spesso per primo, i rovesci.

[Romano Giuffrida e Bruno Bigoni, in Fabrizio De André. Accordi eretici, pp. 60-61]

Dal sito di Giuseppe Cirigliano.

Economia

La Matrix europea

  •   E’ l’anno della riunione sul Britannia quando il gotha della finanza internazionale attracca a Civitavecchia con uno yacht della Corona inglese. Sono venuti a ridisegnare il capitalismo in italia a danno degli italiani, a fare incetta delle nostre migliori aziende e ad arruolare quelli che saranno i loro fedeli servitori al Governo del paese a cui garantiranno incarichi di prestigio: il maggior beneficiario sarà Mario Draghi ma tra i più servili Prodi, Andreatta, Ciampi, Amato, D’alema. I primi 3 erano già entrati a pieno titolo nelle organizzazioni del capitalismo speculativo anglo/americano che aveva deciso di attaccare e conquistare  il nostro paese con l’appoggio di spietate banche d’affari come la Goldman Sachs che favorirà gli incredibili scatti di carriera dei suoi ex dipendenti:  Prodi e Draghi prima e Mario Monti dopo.

E’ l’anno in cui in soli 7 giorni cambiano il sistema monetario italiano che viene sottratto dal controllo del Governo e messo nelle mani della finanza speculativa. Per farlo vengono privatizzati gli istituti di credito e gli enti pubblici compresi quelli azionisti della Banca D’Italia, è l’anno in cui viene impedito al Ministero del Tesoro di concordare con la Banca d’Italia il tasso ufficiale di sconto (costo del denaro alla sua emissione) che viene quindi ceduto a privati. E’ l’anno della firma del Trattato di Maastricht e l’adesione ai vincoli europei. In pratica è l’anno in cui un manipolo di uomini palesemente al servizio del Cartello finanziario internazionale ha ceduto ogni nostra sovranità.
Bisognava passare alle aziende di Stato, l’attacco speculativo di Soros che aveva deprezzato la lira di quasi il 30% permetteva l’acquisto dei nostri gioielli di Stato a prezzi di saldo e così arrivarono gli avvoltoi.
La maggior parte delle nostre aziende statali strategiche passò in mano straniera o comunque fu privatizzata. Ma la cosa più eclatante fu che l’IRI (istituto di ricostruzione industriale) che nella pancia alla fine degli anni ’80 aveva circa 1000 società, fiore all’occhiello del nostro paese fu smembrata e svenduta con la complicità del suo Presidente storico Romano Prodi (dal 1982 al 1989 e durante un periodo tra il 1993 ed il 1994) che fu premiato dal Cartello che favorì la sua ascesa alla Presidenza del Consiglio  in Italia e poi alla Commissione Europea. A sostituirlo come Presidente del Consiglio in Italia e a continuare il suo lavoro di smembramento delle aziende di Stato ci penserà Massimo D’Alema che nel 1999 favorirà la cessione, tra le altre, di Autostrade per l’Italia e Autogrill alla famiglia Benetton, che di fatto hanno, così, assunto il monopolio assoluto nel settore del pedaggio e della ristorazione autostradale. Una operazione che farà perdere allo Stato italiano miliardi di fatturato ogni anno.

Le carte ci dicono che in quegli anni il Presidente dell’IRI era tale Gian Maria Gros-Pietro.
Lo conoscevate ? Io credo di no. Invece il Cartello finanziario speculativo lo conosceva bene e nel 2001 lo convocò alla riunione del Bilderberg in Svezia, indovinate insieme a chi ? Insieme a Mario Draghi e ad un certo Mario Monti entrambi saranno ampiamente ripagati dal Cartello stesso che in futuro riuscì a piazzare Draghi alla Banca d’Italia e poi alla  BCE e Mario Monti dalla Goldman Sachs alla Commissione Europea e poi a capo del Governo (non eletto) in Italia.

E che cosa ne è stato di Gian Maria Gros Pietro ? qui viene il bello. Qui arriviamo al tema di questo post.
Gian Maria Gros-Pietro, che già nel fatidico 1992 era Presidente della Commissione per le Strategie industriali nelle privatizzazioni del Ministero dell’Industria, nel 1994 diviene membro della Commissione per le Privatizzazioni istituita indovinate da chi ? da Mario Draghi. Ora capite come lavora il Cartello finanziario speculativo per mettere tentacoli ovunque e per far si che ci sia sempre un proprio esponente nei ruoli chiave. Ma non finisce qui. Come abbiamo visto nel 1997 Gross Pietro è Presidente dell’Iri mentre viene organizzata la cessione a prezzi di saldo di Autostrade per l’italia che avverrà nel 1999 col passaggio al Gruppo Atlantia s.p.a, controllata da Edizione srl, la holding di famiglia dei Benetton.
Gros-Pietro firma la cessione.
Ora immaginate l’inimmaginabile.
Cosa accade nel 2002 ? Gian Maria Gros-Pietro, dopo aver gestito la privatizzazione dell’Eni andrà a presiedere per quasi 10 anni indovinate che cosa?… proprio la Atlantia S.p.a, la società alla quale solo tre anni prima, come dipendente pubblico, aveva svenduto la gestione dei servizi autostradali italiani.
Le jeux sont fait.

https://www.maurizioblondet.it/20747-2/

Società, sociologia

Prigionieri del fuori

Spigolature da una intervista a Marco Adorni, curatore con Fabrizio Capoccetti di “Prigionieri del fuori. Ordine neoliberale e immigrazione”, BFS edizioni.

“Il dibattito pubblico sulle migrazioni è spesso attraversato da petizioni di principio, come l’idea che, siccome le civiltà sono nate dall’incontro, allora ogni limite (culturale, confessionale, sociale, economico, ecc.) è il male. In un’argomentazione di questo tipo si omette una parte importante della storia del genere umano: il fatto che l’incontro con l’altro non sia mai stato qualcosa di semplice, naturale e pacifico; inoltre, non ci si avvede che la logica no borders è quanto di più utile al neo-liberismo: che cos’è il potere odierno se non una forza sociale transnazionale che sconvolge i confini, abbatte ogni limite, devasta il diritto, privatizza il pubblico, agendo unicamente per incrementare la propria potenza? Per cui, l’immigrazione è tutto tranne che un fenomeno neutrale.”

“Carl Schmitt definiva il ‘politico’ ciò che dava forma e organizzazione all’unità politica in quanto tale, un pouvoir neutre senza cui la lotta politica sarebbe scomparsa. Ma la neutralizzazione di cui parlava il giurista tedesco non ha a che fare con quella attuale, caratterizzata da un potere ontologico, poiché si produce nell’annientamento stesso dello Stato, cioè dell’unità politica, a tutto vantaggio della logica del capitale contemporaneo, che è quella di transnazionalizzare, cioè trovare radicamento stabile nel ‘fuori’, nell’eccezione permanente (ove risiede la vera sovranità globale). Occorre comprendere che non siamo più cittadini di Stati democratici, ma soggetti passivi che vivono e lavorano in uno spazio astratto, un ‘oltre Stato’ anomico e invisibile, dove formazioni predatorie dotate di competenze e strumenti, composte da specialisti e uomini di governo, possono dominare indisturbate, precarizzando lavoro e diritti, inquinando l’ambiente e costringendo centinaia di migliaia di persone prive di cittadinanza a spostarsi continuamente, mettendo così a rischio quel poco che resta degli Stati territoriali e della loro sovranità. Che cosa sono, dunque, i migranti? La prefigurazione di ciò che stiamo diventando tutti: prigionieri del ‘fuori’.”

“Perché non si prova a interrogarsi sulle ragioni geopolitiche dei movimenti umani? Perché non si prova ad affrontare politicamente il fallimento di gran parte degli Stati africani o la loro totale soggezione al potere delle multinazionali occidentali? Perché non di cerca di risolvere il problema dei migranti aiutandoli ‘a casa loro’ – il che non significa realizzarvi campi di concentramento? Perché sono proprio il caos e l’assenza degli Stati a permettere l’estrazione di enormi fortune dai territori di partenza delle masse di disperati verso l’Europa. Ora, bisogna ‘creare dei confini’, che permettano di restituire identità a queste masse umane, e dentro tali confini istituirvi Stati democratici e funzionanti; ciò implicherebbe automaticamente occuparsi anche dei nostri confini, cioè del ‘noi’ e del nostro altrettanto legittimo bisogno di sicurezza e ordine: ogni luogo è unico e unico è ogni popolo.”

“Non credo, sinceramente, che si riuscirà, in questa situazione, a costruire un discorso differente sull’immigrazione, almeno finché, soprattutto a sinistra, non si smetterà di depoliticizzare la riflessione etica, il dibattito pubblico, l’economia e la società italiana. Parlare di accoglienza di migranti senza affrontare la questione del lavoro, la precarizzazione della vita in tutti i suoi aspetti, l’impunità imperante e la crisi dello Stato di diritto, non farà che rafforzare l’identificazione tra la sinistra e il potere.”

Fonte: Eurasia. Rivista di studi geopolitici, n. 3/2018, pp. 183-188.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

fantascienza

Il telepate

Gerald Howson ascolta per caso la conversazione tra due piccoli gangster e si accorge di aver “capito” molto di più di quello che i due hanno detto a parole. Visioni improvvise, misteriosi avvertimenti, esperienze condivise lo avviano per una strada pericolosa ma ricca di scoperte, perché adesso Howson sa che può leggere nel pensiero. Sotto la guida di altri telepati impara a servirsi delle sue facoltà per curare la mente altrui, ma ben presto scopre che il proprio equilibrio è sul punto di crollare. Per sfuggire all’invadenza di migliaia di coscienze, Howson è tentato di nascondersi nei sogni spettacolari che solo il cervello di un uomo dotato dei suoi poteri è in grado di creare, anche a rischio di perdere ogni contatto con la realtà. Finalista al premio Hugo 1965, Il telepate è sempre un classico della fantascienza inglese.

Grazie ad Amazon potete trovare i “vecchi” Urania anche nella edizione per Kindle e con la indicazione del traduttore (qui Ugo Malaguti)