Al cuore della ricerca di Paolo Savona (Dalla fine del laissez faire alla fine della liberal-democrazia, Rubbettino, 2016 ) c’è un tema cruciale per le nostre società occidentali, ovvero il divorzio tra liberalismo e istituzioni che il liberalismo stesso aveva contribuito a creare: Stato, mercato e democrazia. L’autore spiega in 365 dense pagine le cause di questo divorzio, identificandole nell’attrazione fatale che i liberali hanno subìto per la giustizia sociale nel dopoguerra (a scapito della libertà) e nella perdita di sovranità economica e politica dello Stato-nazione westfaliano (definito da una popolazione, una giurisdizione, un territorio) ai tempi della globalizzazione, a vantaggio di organismi sovranazionali (UE, WTO, FMI) e mercati finanziari. Questi fenomeni hanno contribuito – secondo l’autore – a restringere di fatto il quadrilatero delle libertà del filosofo John Locke, fondatore della componente anglosassone del pensiero liberale: vita, pensiero, proprietà e eguaglianza. Diritti preesistenti alla società, di cui ciascun individuo dispone, e che devono essere tutelati dallo Stato attraverso il riconoscimento legislativo (rule of law).
La trattazione dell’autore parte da una definizione di liberalismo come filosofia politica che mette in cima alla sua scala di valori la libertà dell’individuo di darsi da sé gli scopi della vita e di industriarsi per perseguirli, senza coercizioni esterne, e col solo vincolo che questa libertà non debba danneggiare le libertà altrui. Nel liberalismo è quindi l’uomo, e non la collettività (come nel socialismo), la misura di tutte le cose (p.37). Questa concezione del liberalismo è stata teorizzata da Locke e dall’illuminismo anglosassone e prima ancora dal filosofo greco Protagora. A tutelare queste libertà deve esserci la legge (rule of law), che deve limitare qualsiasi forma di arbitrio da parte di autorità esterne, siano esse di stampo religioso o politico. Più in là si è spinto il liberalismo di stampo illuministico francese, razionalista e costruttivista, che si è interrogato soprattutto sulla natura delle istituzioni “giuste”. In queste riflessioni, da Rousseau a Voltaire, si fa strada l’idea di democrazia: gli individui (liberi, razionali e uguali) fondano la società politica attraverso un patto (contratto sociale) che prevede che la volontà della maggioranza prevalga nelle decisioni politiche. Affinché però questa volontà generale non sfoci nel dispotismo, occorre una divisione dei poteri (esecutivo, legislativo, giudiziario) tra diversi organi dello Stato così come teorizzato da Montesquieu, e la tutela effettiva delle minoranze, così come sostenuto da J.S.Mill, A.Tocqueville, K.R. Popper.
Sul piano storico, le idee liberali si diffondono nel XVIII e nel XIX secolo e conducono agli Statuti, alle Carte dei Diritti, alle Costituzioni, che annullano l’origine divina del potere del Sovrano, conferendo maggiori poteri al Parlamento (Magna Charta, Bill of Rights, etc). Parlamenti che, ancora fino allo scoppio della prima guerra mondiale sono però espressione di una élite intellettuale ed economica (ne sono esclusi i ceti popolari e le donne). Il liberalismo diventa democratico quando i ceti subalterni conquistano la possibilità eleggere i propri rappresentanti in Parlamento, negli anni Venti del Novecento. E’ durante questa fase storica che scoppia la questione sociale, al quale l’ideologia bolscevica, fascista e nazista cercano di dare risposte in senso autoritario, mentre i liberali rimangono muti e paralizzati, perdendo consenso. È così che dagli anni Trenta – complice la crisi del ‘29 – muta la concezione liberale dell’eguaglianza. Se prima questa era concepita come eguaglianza “formale” – tutti i cittadini hanno gli stessi diritti/doveri davanti alla legge senza distinzioni di sesso, età, censo – da allora si incomincia a far strada l’idea di eguaglianza come giustizia sociale: se un cittadino non dispone di alcuni beni di base (alimentazione, casa, istruzione, salute) e del lavoro – i diritti sociali – non può fruire pienamente dei diritti civili (libertà espressione, parola, fede) né di quelli politici (di voto). In altre parole, seguendo la celebre dicotomia di I.Berlin tra “libertà negativa”( come assenza di coercizioni esterne) e “libertà positiva” (come partecipazione effettiva alla vita politica e sociale), l’agenda politica dei liberali si concentra ora sulla promozione di quest’ultima. I capeggiatori di questa svolta riformista del pensiero liberale furono Franklin Delano Roosevelt negli USA (con il celebre discorso sulle “4 libertà” e il New Deal), J.M. Keynes e William Beveridge in Gran Bretagna (con la creazione del welfare state e la piena legittimazione, teorica e pratica, dell’intervento dello Stato nell’economia per sostenere la domanda globale di beni e servizi e garantire la piena occupazione). Queste idee gettarono le basi per l’imponente crescita economica dei paesi occidentali nel primo trentennio del dopoguerra (1945-1975). In questa fase (“i Trenta Gloriosi”), Democrazia, Stato e Mercato sembrarono trovare la quadratura del cerchio: il mercato produceva ricchezza, la politica la redistribuiva secondo i dettami degli elettori, in maniera sempre più egualitaria. Un equilibrio precario, rotto, secondo la tesi (assai discutibile) dell’autore, che qui si rifà alla scuola di pensiero della Public Choice di J.Buchanan – dall’eccesso di democrazia: “la frontiera della giustizia sociale si è spostata sempre più in avanti al crescere delle pretese dei cittadini elettori che l’evoluzione democratica assevera, incrociandosi con l’interesse dei politici a soddisfare per ottenerne il voto. Questa coincidenza di istanze genera una situazione in cui le istanze individuali soggiacciono a quelle collettive e lo stato minimo diviene massimo, che è la condizione in cui gli individui vivono soprattutto nei paesi avanzati dove la giustizia sociale è diventata il perno attorno al quale ruota l’organizzazione statale e ha finito con l’assorbire la metà del prodotto annuale” (p.112).
Il pensiero liberale, nella visione di Savona, ha quindi ceduto troppo alle istanze sociali e si è quasi confuso con la social-democrazia, portando l’economia a sbattere contro inflazione e crescente indebitamento pubblico, preparando così il terreno a una ripresa in senso conservatore del liberalismo. Questa ideologia, chiamata neo-liberismo – che informa, per esempio, tutto l’impianto di governance dell’Unione Europea – antepone la giustizia commutativa del mercato alla giustizia distributiva della democrazia e mette in cima alla sua scala di valori l’accumulazione di capitale, l’appropriazione privata dei mezzi di produzione, il profitto (p.171). Ma né il mercato né la democrazia, secondo Savona, sono meccanismi perfetti. Il mercato globale, lungi dall’essere libero e concorrenziale come vorrebbero i manuali di teoria economica, è invece dominato da oligopoli e non è in grado di assicurare la piena occupazione e una distribuzione equa delle risorse. La democrazia è invece spesso inquinata da elettori non preparati che si lasciano attrarre da politici imbonitori (media – crazia). Bisognerebbe correggere l’uno con più giustizia e l’altra con più educazione. Servirebbe costruire – questo l’auspicio dell’autore – un nuovo equilibrio fra le istituzioni principali – Stato, mercato, democrazia – che bilanci istanze sociali e individuali, evitando che nessuna di esse sovrasti le altre. Una sfida certo difficile, ma da raccogliere, specie per quei liberali che non vogliono finire schiacciati nella tenaglia costituita da un’élite tecnocratica, autoreferenziale e insensibile alla questione sociale, e da “populismi” arrembanti che offrono risposte spesso inadeguate alle domande di protezione da parte dei ceti più svantaggiati.
Federico Stoppa
Come si capisce dal titolo la quadratura del cerchio si sarebbe dovuta ottenere fornendo al popolo (attraverso la scuola) gli strumenti per partecipare attivamente e direttamente al governo della nazione; il tempo c’era, ma ovviamente ai più non faceva comodo e poi studiare è fatica: https://apoforeti.wordpress.com/2018/06/24/lectio-facilior/
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