Arte

Il dadaismo italiano

Il Dadaismo è la meno indagata tra le avanguardie primo novecentesche. Nel 2016, in occasione del centenario della nascita del movimento Dada, nel nostro paese in pochi sono tornati a parlare del contributo creativo fornito del drappello di artisti formatosi a Zurigo attorno a Tristan Tzara. Non è un caso: il senso ultimo del dadaismo non è meramente estetico, ma indirizzato a squarciare l’abisso della vita, mirato a cogliere, oltre la logica eleatico-diairetica, la dimensione  tragica che ci costituisce. Inoltre, tra i Dadaisti, i meno noti sono gli italiani che, al contrario, svolsero un ruolo significativo, nel tracciare l’iter del movimento. Fa luce sul Dadaismo nostrano e sul senso generale di tale gruppo trans-estetico, una recente pubblicazione di Emanuele La Rosa, Dada? Una pazzia criminale! Ricezioni e sviluppi dell’antiavanguardia in Italia (1916-1945), edito da Robin edizioni (per ordini: robinedizioni@robinedizioni.it, euro 15,00).

Il testo raccoglie un considerevole numero di articoli comparsi su giornali e riviste nel nostro paese tra il 1926 ed il 1945, fornendo una significativa testimonianza della ricezione del Dada in Italia, patria del Futurismo. La sezione più rilevante degli scritti ci pare quella relativa all’analisi della parabola seguita dal movimento nel Bel Paese. A Mantova, animatori Dada furono Aldo Fiozzi e Gino Cantarelli, a Roma il filosofo Julius Evola, che a differenza dei primi, ha svolto un ruolo rilevante, europeo, nella definizione teoretica dell’antiestetica dadaista. Procediamo con ordine. L’ingresso in Italia di Dada fu contrastato tanto dall’ala più conservatrice di critici ed artisti, quanto dagli uomini di Marinetti. Tzara fu, negli scritti a lui dedicati, il più delle volte, liquidato quale “tisico” ed “ebreo”. La cifra che connota, come ricorda La Rosa, la critica del movimento è l’inadeguatezza. Solo nell’ultimo periodo, grazie al processo di decantazione temporale e alla contestualizzazione storica, si sta giungendo alla formulazione di giudizi criticamente più accorti. In ogni caso, dal testo si evince che, fin dal 1915, Hugo Ball era in contatto con Marinetti, tanto che sul numero unico Cabaret Voltaire del 15 maggio del 1916, fu pubblicato un suo contributo oltre a quello di altri futuristi italiani.

Alberto Spaini, inviato in Germania per Il Resto del Carlino, non solo informava periodicamente Tzara degli sviluppi dell’arte in Italia, ma partecipò alla quarta soirée presso la Galerie Dada. La simpatia per Tzara e il suo movimento venne meno dopo la pubblicazione del Manifeste Dada 1918, testimoniante la volontà iconoclasta e nichilista del Dadaismo. Nel 1917, per la morte di Boccioni e l’assenza forzata di Marinetti, causata dalla guerra, la rivista Noi, diretta a Roma da Prampolini e Sanminiatelli, pubblicò testi di Tzara, Janco e Arp, al fine di colmare il vuoto di riferimenti. Il tentativo di apertura fu stroncato sulle pagine de Gli Avvenimenti da una delle più note critiche d’arte dell’epoca, Margherita Sarfatti. A tale presa di posizione fece seguito l’intervento di Alberto Savinio che, dalle colonne de Il Popolo d’Italia, ridusse le produzioni Dada “a quelle degli alienati, dei pervertiti sessuali e dei pederasti” (p. 15). Su Roma Futurista, Mario Scaparro si pose lungo la medesima linea interpretativa, riducendo il Dada al femmineo e al folle e il Futurismo alle categorie del virile e bellicoso. Solo il pittore ferrarese Filippo de Pisis, amico di Evola, rilevò la possibile prossimità dei due movimenti.

Marinetti dalla pagine di Arte futurista italiana, dell’aprile del 1929, scrisse: “DADAISMO=nichilismo.Balbettio infantile e tavole parolibere” (p. 19). A seguito del Festival Dada del 26 maggio 1920 a Parigi, intervenne nella polemica anche Riccardo Bacchelli che definì il movimento di Tzara “carabattola scimunita”(p. 22), rispetto alla quale il Futurismo sarebbe assurto a gloria letteraria. Insomma, siamo di fronte all’incomprensione più completa. Il Dada è un’antiarte che non vuole niente e che non dice nulla. Il prodotto artistico è ridotto alla dimensione interna, è per dirla con Evola, risultato di un atto egoistico ed autarchico dell’Io. Incoerenza, negazione e contraddittorietà, non fanno che manifestare i tratti salienti del Dadaismo quale dottrina dell’assoluta libertà. Nella produzione d’arte, stando ad Evola, si darebbe un’identificazione di forma e contenuto (formalismo assoluto), testimoniante “la piena coincidenza,“comunicabile” solo attraverso una soluzione astratta, di pensiero-creazione ed espressione” (p. 23). Come rilevato da Flora, il Dadaismo si oppone alla dimensione cerebrale-intelletiva, la ricerca nichilista della tabula rasa, risultando, in tale approccio, propedeutica alla scoperta della libertà originaria. L’artista Dada recupera, nell’atto performativo, la creatività magico-intuitiva del primitivo, aprendosi al divino o, nel caso di Evola, al fine di viverlo.

     Il Dada inaugura lo sguardo indifferente sul reale, sul gusto, sullo stile, sull’esistenza. E’ filosofia sintonica alle Muse, in senso ellenico e, in quanto tale, la sua poietica è a-umana. Nel 1920 fu ufficializzata, dopo tre anni di incubazione, come viene ricordato da La Rosa, la nascita del movimento Dada italiano, che, dopo quanto si è detto, non poteva non avere in Julius Evola il proprio principale punto di riferimento. Organo del gruppo italiano fu la rivista mantovana Bleu, fondata da Fiozzi e Cantarelli, a seguito dell’esaurimento dell’esperienza di Procellaria. Il 21 luglio 1920, si tenne a Milano un incontro tra i dadaisti italiani e Tzara, al quale non poté partecipare Evola. Il secondo numero di Bleu dell’agosto-settembre 1920, testimonia una condivisione piena di visione del mondo e di obiettivi da parte della redazione. Il periodico pubblicò, infatti, la riproduzione del quadro di Fiozzi, Valori astratti di un individuo Y, carico di simboli e di riferimenti alla tradizione alchemico-ermetica. Tanto per Evola, quanto per il pittore mantovano, Dada sta a significare “non solo una poetica astratta, ma anche […] la possibilità di esprimere la volontà dell’individuo di innalzarsi al di sopra del mondo sensibile” (p. 171).

Luogo espositivo prediletto dal gruppo italiano fu, almeno all’inizio, la Casa d’Arte Bragaglia, ma le virulente polemiche anti-futuriste di Evola, portarono alla rottura dei rapporti con l’espositore. Un nuovo spazio fu individuato nelle Grotte dell’Augusteo di Arturo Ciacelli, sempre a Roma. Nella stessa città e nel medesimo frangente Evola tenne una conferenza sul Manifesto Dada 1918 presso l’Aula Magna dell’Università “La Sapienza”. Ben presto si interruppero i rapporti con i mantovani. Il filosofo tentò di far partire la rivista Malombra tra mille difficoltà, che ne ostacolano la riuscita. Terminò così la breve ma intensa stagione del Dadaismo italiano.

http://www.barbadillo.it/76174-libri-dada-una-pazzia-criminale-da-evola-a-tzara-una-avanguardia-tutta-italiana-nel-novecento/

Economia

Neoliberismo e povertà

di Ilaria Bifarini – 25/07/2018

Neoliberismo e povertà

Fonte: Ereticamente

Ogni tanto, tra le varie notizie di propaganda che dipingono un paese irreale, in cui un aumento quasi impercettibile del Pil – peraltro stimato- e una diminuzione lievissima del tasso di disoccupazione attualmente alle stelle -perlopiù legata a fattori stagionali- vengono spacciati per crescita, trapela qualche dato reale sullo stato di salute del Paese. Uno di questi è quello divulgato ieri dall’Istat -e precedentemente anche dall’OCSE – sul livello di disuguaglianza interno alla popolazione: mentre una fascia ristretta della popolazione diventa sempre più ricca la schiacciante maggioranza si impoverisce. In un solo anno, dal 2015 al 2016, la percentuale di italiani a rischio povertà o esclusione sociale è passata dal 28,7% al 30%.

Il trend non è solo a livello nazionale, ma rispecchia una tendenza globale in atto già da decenni ed è strettamente collegato alla modello “di sviluppo” neoliberista e alla finanziarizzazione dell’economia ad esso connessa. Se osserviamo i valori relativi al reddito medio del 99% della popolazione più povera e dell’1% più ricco, osserviamo come i primi siano cresciuti fortemente a partire dal dopo guerra fino agli anni 70, contro un ritmo più moderato del secondo gruppo. Improvvisamente il trend si inverte, inizia il rallentamento della ricchezza del 99% più povero (cioè la stragrande maggioranza della popolazione del mondo, cioè noi) a fronte di un’impennata del reddito dell’1% più ricco.

Cosa accade in questi anni? Di certo non è casuale che proprio il 1973, anno della crisi petrolifera e della conseguente stagnazione, segni la data di morte del keynesismo e il trionfo indiscusso della dottrina neoliberista. L’economia reale lascia il passo alla finanza, che diventa sempre più predatoria e totalizzante, l’apertura al commercio mondiale diventa sempre più completa e priva di protezioni statali, l’inflazione e il debito pubblico diventano i nemici giurati mentre l’austerity il nuovo culto. L’indice di Gini, che misura il livello di disuguaglianza all’interno di una popolazione, cresce su scala globale, come riflesso di un modello economico fallimentare e infondato applicato a livello universale. In uno studio effettuato sul caso degli Stati Uniti è stato stimato che una crescita del 2% del Pil comporta una decrescita del reddito del 90% della popolazione.

Siamo dunque di fronte a un modello economico di crescita antisociale in cui all’aumento del reddito globale corrisponde un impoverimento della quasi totalità della popolazione, ad eccezione di una ristretta fascia di élite che si fa sempre più esclusiva.
Basti pensare che nel 2012 metà della ricchezza mondiale era concentrata in soli 64 individui. Oggi la stessa ricchezza è detenuta da un manipolo limitatissimo di otto persone. D’altronde le proiezioni dell’OCSE sul lungo periodo parlano chiaro: saremo sempre più poveri e più diseguali, tanto che da qui a una quarantina d’anni il tasso di disuguaglianza aumenterà del 40%.

La correlazione con il modello economico neoliberista, e in particolare con il mantra dell’austerity, è talmente evidente che persino il Fondo Monetario Internazionale, l’istituzione icona delle politiche neoliberiste, in un suo studio (Neoliberalism Oversold, IMF, 2016) ha dovuto riconoscere la fallacia di questa politica. È stato calcolato che in media un consolidamento del debito pari all’1% del Pil aumenta dello 0,6% il livello di disoccupazione di lungo termine e fa crescere dell’1,5% in cinque anni il tasso di disuguaglianza!

Secondo gli economisti del Fondo monetario, le politiche di austerity non solo, infatti, comportano costi per il welfare, ma danneggiano anche la domanda, aggravando così il problema della disoccupazione, in un circolo vizioso che aumenta la disuguaglianza, nonché la corruzione a essa correlata. Non è infatti difficile comprendere come l’élite di privilegiati eserciti un potere sempre maggiori su una fascia sempre più alta della popolazione a rischio povertà, disposta ad accettare le logiche clientelari per sopravvivere…

Nonostante l’evidenza dimostrata sia dagli studi economici sia dai dati inconfutabili della realtà, gli organismi economici sovranazionali che governano il mondo continuano ad applicare le stesse rovinose politiche economiche, che risultano altamente efficaci e redditizie per quell’1% della popolazione, che pure va sempre più restringendosi e divenendo sempre più élitarista al suo interno. Il paradosso economico è divenuto realtà.

Ilaria Bifarini (http://ilariabifarini.com/)

è nata a Rieti l’1 aprile del 1980 e si è diplomata al Liceo classico “Terenzio Varrone”. Dopo essersi trasferita nel 1999 a Milano, nel 2004 si è laureata col massimo dei voti in Economia della Pubblica amministrazione e delle Organizzazioni internazionali all’Università “Luigi Bocconi” di Milano. In seguito ha frequentato la Scuola Italiana per le Organizzazioni Internazionali di Roma ed il Corso di Liberalismo presso l’Istituto “Luigi Einaudi” di Roma. Ha conseguito inoltre l’abilitazione alla professione di dottoressa commercialista e revisore contabile. Dopo esperienze professionali nel pubblico e nel privato, attraverso un cammino fatto di studio ed introspezione, si è via via discostata dalla formazione prettamente neoliberista derivante dai miei studi. Nel 2017 ha pubblicato il mio primo libro, “Neoliberismo e manipolazione di massa – Storia di una bocconiana redenta”, iniziando ad impegnarmi concretamente nello smascheramento dell’inganno neoliberista. A distanza di un anno è uscito il mio “I coloni dell’austerity. Africa, neoliberismo e migrazioni di massa” (https://www.amazon.it/coloni-dellausterity-Africa-neoliberismo-migrazioni/dp/1980621195/ref=sr_1_2?ie=UTF8&qid=1521981805&sr=8-2&keywords=bifarini), dove porto avanti il cammino di ricerca intrapreso e analizzo le cause dell’attuale fenomeno migratorio attraverso una chiave di lettura inedita e sconosciuta al mainstream.

https://www.ariannaeditrice.it/articolo.php?id_articolo=60796

storia

La calda estate del ’43

Sull’argomento sono stati scritti decine e decine di libri, alcuni pregevoli, altri meno, e migliaia di articoli. Oltre ad una memorialistica certo di parte, riflesso di personali contingenze, ma non per questo priva d’interesse. Sull’argomento sono, ovviamente, legittime letture ed interpretazioni diverse, oggi come subito dopo la caduta di Mussolini e del fascismo. Tra le opposte tesi del tradimento e della congiura – in qualche modo ratificate da Benito Mussolini stesso nel 1944 sul “Corriere della Sera” nell’inizialmente anonimo Il tempo del bastone e della carota (Storia di un anno)    e quella di un “progetto”, lasciato furbescamente maturare dal Duce, in fondo desideroso di essere estromesso dal potere militare o anche politico (ma certo non di finire prigioniero), onde non caricare personalmente con il peso della ormai inevitabile resa dell’Italia – possibilità sostenuta dalle SS contro l’avviso di Hitler – sono state elaborate, in fase di ricostruzione storiografica e giornalistica, svariate ipotesi.

Il vorticoso giro di rapporti fra monsignor Montini, sostituto alla Segreteria di Stato di Pio XII, ed il Re, la nuora Maria Josè, Galeazzo Ciano ed emissari anglo-americani, ha pure lasciato il sospetto che il Vaticano abbia allora avuto un ruolo ben più attivo di quello di spettatore terzo. Dino Grandi, già Ambasciatore a Londra, era allora Presidente della Camera dei Fasci e delle Corporazioni, un organo non elettivo e con un ruolo complementare. L’art. 2 della legge istitutiva del 1939 infatti così recitava: “Il Senato del Regno e la Camera dei fasci e delle corporazioni collaborano col governo alla formazione delle leggi”. Egli fu, dall’alto di un notevole prestigio personale, probabilmente immeritato, autore principalissimo dell’iniziativa, poi sfociata nel suo OdG per estromettere il Duce dal potere ed ottenere la pace dagli Alleati. Essa scattò nella seconda parte del 1943, ma non sarebbe stata concordata nei particolari con Vittorio Emanuele III. Nel corso dell’udienza privata con il sovrano il 4 giugno, Grandi gli espose, comunque, il suo piano. Il Re disse che solo il Parlamento o il Gran Consiglio avrebbero potuto “indicargli la strada”.

Fra le testimonianze  memorialistiche credo che rivestano un particolare valore  quelle di  Alberto De Stefani e di Luigi Federzoni. Quest’ultimo fu uno degli elaboratori e sottoscrittori dell’OdG Grandi. Le riassumo brevemente.

Alberto De Stefani (Verona, 6 ottobre 1879 – Roma, 15 gennaio 1969) era stato l’unico parlamentare eletto in una lista fascista alle elezioni del 1921. De Stefani fu un economista e docente universitario di grande ed indiscusso valore. All’indomani della Marcia su Roma (ottobre 1922), Mussolini lo volle con sé al governo come Ministro delle Finanze e del Tesoro. De Stefani da quella postazione mirò a quello che era stato l’obiettivo delle grandi personalità della Destra Storica: il pareggio del bilancio. Pareggio che ottenne nell’estate del 1925. De Stefani tornò poi all’insegnamento ed alla collaborazione con il «Corriere della Sera», salvo essere richiamato in servizio dallo stesso Mussolini alla guida di un Comitato per la riforma burocratica. Negli anni Trenta De Stefani fu contrario alla guerra d’Etiopia e, quando l’Italia strinse un’alleanza con Tokyo in vista di un nuovo conflitto, lui — in contrasto con l’opzione giapponese — accettò di diventare consulente del governo cinese.

Luigi Federzoni (Bologna, 27 settembre 1878 – Roma, 24 gennaio 1967) era stato, nel 1910, uno dei fondatori dell’Associazione Nazionalista Italiana. In ottimi rapporti con il re Vittorio Emanuele III, nel 1922, al momento della Marcia su Roma, Federzoni aveva avuto un ruolo forse decisivo nel tenere Mussolini al corrente delle decisioni del sovrano. Il Duce lo compensò affidandogli il Ministero delle Colonie e poi, per premiarlo della fedeltà dimostrata ai tempi del delitto Matteotti, nel 1924 lo spostò agli Interni, dove rimase fino al 1926. Ma anche lui, come De Stefani, negli anni Trenta poco fece per nascondere il proprio dissenso ( fu molto critico della legge sul Gran Consiglio del Fascismo che costituì il riconoscimento formale dello status costituzionale del PNF) ed ebbe alte cariche sostanzialmente onorifiche: la Presidenza del Senato prima (1929-1939), poi quella dell’Accademia d’Italia (1938-1943). Fu tra i pochissimi che nel 1938 si opposero apertamente alle leggi razziali.

In Gran consiglio, ultima seduta (con prefazione di Francesco Perfetti, Le Lettere, 2013), Alberto De Stefani  pensa che Mussolini non abbia sollevato un’eccezione di costituzionalità in merito all’ordine del giorno Grandi, «benché non potesse essergli sfuggito» che quell’iniziativa era «incostituzionale»; perciò il Duce stesso «legalizzò» in qualche modo «l’iniziativa rivoluzionaria ed il colpo di Stato del Gran Consiglio». Del resto Mussolini era da tempo «uscito dai propri limiti legali, avocando a se stesso con un atto rivoluzionario la rappresentanza del fascismo e il diritto di interessarsi, eccedendo i propri poteri, di questioni riguardanti i supremi interessi della patria».

Questa lettura della seduta del Gran Consiglio del 25 Luglio 1943, «che tende a sottolineare una dimensione rivoluzionaria e incostituzionale» e ad «avallare l’idea che in quella sede fosse stato realizzato un colpo di Stato», osservava Perfetti, «è in contrasto con le affermazioni fatte, in più sedi, da altri firmatari dell’ordine del giorno Grandi», i quali, al contrario, «hanno sempre rivendicato la correttezza giuridica dell’iniziativa e negato per essa ogni retropensiero di natura eversiva». Primo tra tutti Dino Grandi nel suo celebre 25 Luglio. Quarant’anni dopo, a cura di Renzo De Felice (Bologna, Il Mulino, 1983).

D’altro canto, lo stesso De Stefani rigetta la categoria del «tradimento», richiamando l’attenzione sul fatto che l’ordine del giorno Grandi era un «documento tattico» che offriva a Mussolini un’opzione per il superamento della crisi, mettendo in evidenza come le critiche alla degenerazione del fascismo fossero condivise anche da coloro che non avevano sottoscritto il documento. Secondo De Stefani, Mussolini aveva «già da quella notte sentito salire in sé stesso la necessità storica della sua esclusione». E questo spiegherebbe perché egli sia stato così remissivo nel corso di quella lunghissima nottata ed il giorno seguente, non aderendo neppure all’invito angosciato della moglie Rachele, non l’unico, di non recarsi a Villa Savoia:

«L’ingresso del Duce nella sala del Gran Consiglio è stato silenzioso; un’accoglienza di attesa; pareva non vedesse nessuno; rifletteva e dava l’impressione di chi si appresta ad ascoltare; la sua espressione era passiva, senza sintomi di reazione come quella di chi deve accettare un avvenimento e non vuole sottrarvisi; la macchina era stata messa in moto e avrebbe continuato a muoversi; non era più in nostro potere di arrestarne la implacabilità; noi stessi ne eravamo lo strumento; della nostra libertà si era impadronita quella misteriosa macchina che gli uomini dicono fatalità; la sua logica ci dominava e noi avevamo perduto la nostra libertà».

Ed ancora:

«Il Duce è stanco: s’abbandona sul suo scranno per cercarvi un sostegno al suo abbandono; ordina al segretario del partito di fare l’appello; siamo tutti presenti, anche coloro che soggiornavano fuori di Roma e che non avevano ricevuto l’invito; anch’essi erano tornati per un misterioso richiamo interiore; molti di noi avrebbero potuto essere legittimamente assenti, ma ognuno aveva sentito qualche cosa in sé che lo aveva fatto tornare; le risposte all’appello sono monotone, impersonali, hanno un timbro unico e sono date a mezza voce… La nostra personalità sembrava scomparsa, eravamo tutti lì per adempiere lo stesso dovere; nessuno aveva qualche cosa da esprimere di suo, di particolare che non fosse comune anche agli altri, o che anche gli altri non avrebbero detto».

Secondo Federzoni, invece, non si dovrebbe assolutamente parlare di colpo di Stato o di congiura. «Prima di tutto», scrive in Memorie di un condannato a morte (redatte mentre era rifugiato nell’Ambasciata del Portogallo, dopo il 26 luglio ’43, e pubblicate nel 2013 da Francesco Perfetti) «niente “fellonia” né tampoco “agguato”, “imboscata” ecc.: parole altrettanto gonfie di fragore quanto vuote di senso, con le quali ci si vorrebbe squalificare. Grandi preavvisò Mussolini fin dalla mattina del 22 circa la nostra iniziativa, e poi gli inviò, a mezzo di Scorza (n.d.r. Segretario del PNF), il nostro ordine del giorno». Perciò, prosegue, non si può dire che ci fu colpo di Stato; si ebbe invece l’«esercizio legittimo di una potestà statutaria del sovrano, esercizio suffragato, sebbene non ce ne fosse bisogno, dal non meno legittimo voto del Gran Consiglio».

(Da http://www.cinquantamila.it/storyTellerArticolo.php?storyId=0000002243257)

Albertina Vittoria ha pubblicato in Studi Storici  (1995), I diari di Luigi Federzoni. Appunti per una biografia. Il diario piú importante Federzoni lo scrisse durante l’occupazione tedesca, mentre si trovava nascosto nell’Ambasciata di Portogallo presso la Santa Sede: una settantina di capitoli, dal settembre 1943 al giugno 1944. Questo diario, o alcune parti di esso, avrebbe dovuto esser stampato dall’editore romano De Luigi, con il titolo Le memorie di un condannato a morte, ma ne furono pubblicate solo alcune puntate sul giornale «L’Indipendente» di Roma e sulla «Nuova Stampa» di Torino nel giugno-luglio 1946.

Il filo conduttore del diario del 1943-44  è rappresentato dalla riflessione di Federzoni sul ruolo svolto nel corso del ventennio fascista; laddove per Mussolini egli – come gli altri 18 membri del Gran Consiglio che avevano votato l’OdG Grandi – rappresentava il «traditore», mentre per Federzoni era il Duce che, con la sua politica demagogica e con l’aver trascinato l’Italia nell’avventura bellica, aveva tradito i presupposti su cui era nato il fascismo e nei quali lui  aveva creduto:

“Il fascismo non attuò, bensí sciupò, travisò e infirmò, con una volgarizzazione superficiale di tono demagogico, un organismo di idee in cui era un’essenza classica di ordine, di giustizia e di grandezza morale. Dal canto mio, alla vigilia della Marcia su Roma, l’8 ottobre 1922, parlando al «Lirico» di Milano in nome dei miei amici, avevo francamente indicato a quali condizioni i nazionalisti avrebbero assecondato un’eventuale azione di governo dei fascisti: rafforzamento dell’autorità dello Stato sopra i partiti; impero assoluto della legge; riconoscimento della monarchia come presidio fondamentale dell’unità e continuità della Nazione; tutela dei valori religiosi ed etici; elevazione materiale e morale dei lavoratori, accompagnata a ferma difesa dell’ordine sociale; indirizzo economico e finanziario antidemagogico. Avrò torto, ma io sono rimasto ligio a quei principi, nei quali allora pareva che tutti convenissimo”.

Era stato Benito Mussolini, «il Dittatore perpetuo, l’onnipotente padrone d’Italia per ventun anno, colui che aveva di fatto e ormai anche formalmente instaurato al posto della Monarchia una Diarchia», ad aver «contribuito per il 90 per cento al collasso dell’Esercito, con la sua opera incompetente ed incoerente di Ministro delle Forze Armate per oltre quattordici anni e poi di Comandante supremo in guerra» e ad aver portato il Paese alla disfatta. Ed era proprio questo che non gli veniva perdonato e che aveva portato i 19 membri del Gran Consiglio ad esautorarlo e molti altri a negargli la fiducia che gli avevano dato per vent’anni.

Luigi Federzoni – l’unico sopravvissuto ad essersi sempre rifiutato di conversare con De Felice – riassume in sé l’atteggiamento di quella classe politica ed intellettuale di origine nazionalista, che aveva creduto nel fascismo per il bene della nazione, ‘orianamente’ costituitasi attraverso la sua «lotta politica»: a Mussolini non veniva perdonato “l’aver dilapidato follemente il patrimonio dell’unità, dell’indipendenza e della potenza d’Italia” nella disastrosa condotta della guerra. Testimonianza del passaggio, nella storia della nazione, dal fascismo alla democrazia, il Diario esprime il travaglio di una generazione che aveva visto crollare i propri ideali e che ora (dopo la conclusione del conflitto) s’interrogava sul proprio futuro:

‘O l’Italia avrà ritrovato nei nuovi cimenti il vigore spirituale, che essa destò in sé venticinque anni or sono, e vincerà anche la minaccia del sovvertimento interno; o avrà fallito pure quest’altra prova, e dovrà correre l’alea di diventare, come la nascente Jugoslavia, un pianeta un po’ più grosso di quello nel sistema di cui Mosca è il sole”.

Circa le vicende del 25 luglio ’43 scriveva allora Federzoni:

‘Il crollo di Mussolini e del fascismo è avvenuto per il voto del Gran Consiglio. Contrariamente a quanto è stato piú volte raccontato Dino Grandi ed io, promotori del voto, agimmo di nostra spontanea iniziativa, all’infuori di qualsiasi inspirazione della Corte o dello Stato Maggiore. Per parecchi anni il compianto Italo Balbo, io e – compatibilmente con la sua continua assenza dall’Italia – Dino Grandi eravamo stati chiamati i frondeurs del Gran Consiglio, chiaramente avversi all’indirizzo totalitario della politica interna e a quello filonazista della politica estera. Nel luglio 1943 un certo rinnovamento apportato di recente alla composizione del Governo e, per riflesso, in quella del Gran Consiglio, mediante l’immissione di elementi ottimi, come De Marsico, Pareschi, Bastianini, Albini ecc., e principalmente l’impressione di sgomento prodotta dai disastri della guerra, autorizzava la speranza che un voto di biasimo dei funesti errori politici e militari che li avevano causati potesse finalmente raccogliere una maggioranza. E cosí, infatti, avvenne’. (http://web.tiscali.it/studistorici/1995/n3/1995307b.htm).

Eugen Dollmann, SS Standartenfher e rappresentante politico e personale di Himmler in Italia, gran mediatore e tessitore di accordi segreti, si occupò sollecitamente, dopo il 25 luglio e  la caduta del fascismo, di «stabilire fili di collegamento con il Presidente della Fiat, Vittorio Valletta» per mettere in piedi «un gabinetto pulito formato possibilmente da tecnici e funzionari apolitici, preferibilmente non compromessi con il fascismo». Piano che, dopo l’8 settembre e la liberazione di Mussolini dal Gran Sasso, «venne accantonato con danno per tutti, italiani e tedeschi», secondo quanto poi ne scrisse quel raffinato cultore della nostra storia, cultura ed arte nel suo libro più importante, Roma nazista ed in altri articoli, poi in parte raccolti in La calda estate del 1943, (2012), con prefazione di Francesco Perfetti.

Sono trascorsi ¾ di secolo. La polvere del tempo e della storia si è accumulata su quegli avvenimenti, non stemperandone, tuttavia, né l’importanza storica, né la residua conflittualità ideale o ideologica. Fu il 25 luglio una responsabile presa d’atto del fallimento di un regime, da parte della classe dirigente, o  la rivincita delle destre, cioè il ‘fascismo regime’ al collasso, contro l’innato carattere rivoluzionario del ‘fascismo movimento’, per usare categorie defeliciane?

http://www.barbadillo.it/76191-storia-lanniversario-della-congiura-anti-mussolini-del-25-luglio-1943/

fantascienza, Letteratura

Settimana Ugo Malaguti

Care lettrici, amici lettori,

inizia domani una settimana festosa per Elara, perché ci porterà, il 21 luglio, al compleanno del nostro direttore letterario, Ugo Malaguti, che quest’anno ha ripreso il suo lavoro del quale si stanno vedendo i primi frutti, e molti altri si vedranno nelle prossime settimane.

Nel sito http://www.elaralibri.it la settimanale sorpresa nel quadro di Estate Elara potrete trovarla nel Flash appena apparso, e riguarda proprio l’Ugo Malaguti scrittore, per chi lo conosce ma si fosse lasciato sfuggire uno dei suoi libri best sellers del catalogo Elara, o persino l’introvabile Mosaici di sonnolenta avventura, esaurito e non più acquistabile, del quale l’autore offre la possibilità di riceverlo in omaggio con sua dedica personale mettendo a disposizione le copie che lui si era riservato e intendeva conservare per sé.

Vi rimandiamo al Flash, ricordando anche che la sua durata copre eccezionalmente la settimana dal 15 al 21 luglio.

Ricordiamo anche agli amici Contradaioli che domani riceveranno Il giornale della Contrada delle Stelle no. 3, e che le spedizioni del grandissimo classico, per la prima volta presentato in una completa e splendida traduzione italiana, si sono concluse. Il libro può essere ordinato solo dagli iscritti alla Contrada delle Stelle, le copie, visto che la tiratura limitata e numerata è di sole 300 copie, sono ormai limitate, i Contradaioli che hanno dimenticato o aspettato prima di fare l’ordine sono invitati ad affrettarsi.

La settimana prossima tocca al bellissimo romanzo di Alessandro Fambrini, Girotondo. L’ultimo caso dell’ìspettore Jorgensen. Abbiamo speso molte parole e molti elogi per questo romanzo, che consideriamo imperdibile per chiunque ami la fantascienza d’autore e di atmosfera, scritto da quello che non a caso viene definito “lo Sturgeon italiano”. Per ordinarlo siete ancora in tempo. È il libro della vostra estate.

Ci sono ancora alcune copie disponibili del capolavoro di A. E. van Vogt, La città degli invisibili. Ordinatelo per leggerlo nella vostra estate, senza aspettare mesi e mesi per una ristampa.

A proposito di ristampe, siamo lieti di comunicare che sono di nuovo disponibili:

Steampunk a cura di Ann e Jeff Vandermeer (FAN 010)

La città dei santi e dei folli di Jeff Vandermer (FAN 012)

Il signore di Samarcanda di Robert E. Howard (FAN 014)

Veniss Underground di Jeff Vandermeer (FAN 0015)

Operazione Europa a cura di Pier Luigi Manieri (SPE 008)

Il calendario definitivo delle uscite potete leggerlo nel sito.

Per trovare i dettagli sui volumi, basta entrare nel Catalogo e cercare le collane indicate accanto al titolo (FAN indica Libra Fantastica, il numero d’ordine della collana segue l’indicazione; SPE sta per Speciali Elara.

http://www.elaralibri.it/

 

Società

Più cultura al popolo

Al cuore della ricerca di Paolo Savona (Dalla fine del laissez faire alla fine della liberal-democrazia, Rubbettino, 2016 ) c’è un tema cruciale per le nostre società occidentali, ovvero il divorzio tra liberalismo e istituzioni che il liberalismo stesso aveva contribuito a creare: Stato, mercato e democrazia. L’autore spiega in 365 dense pagine le cause di questo divorzio, identificandole nell’attrazione fatale che i liberali hanno subìto per la giustizia sociale nel dopoguerra (a scapito della libertà) e nella perdita di sovranità economica e politica dello Stato-nazione westfaliano (definito da una popolazione, una giurisdizione, un territorio) ai tempi della globalizzazione, a vantaggio di organismi sovranazionali (UE, WTO, FMI) e mercati finanziari. Questi fenomeni hanno contribuito – secondo l’autore – a restringere di fatto il quadrilatero delle libertà del filosofo John Locke, fondatore della componente anglosassone del pensiero liberale: vita, pensiero, proprietà e eguaglianza. Diritti preesistenti alla società, di cui ciascun individuo dispone, e che devono essere tutelati dallo Stato attraverso il riconoscimento legislativo (rule of law).

La trattazione dell’autore parte da una definizione di liberalismo come filosofia politica che mette in cima alla sua scala di valori la libertà dell’individuo di darsi da sé gli scopi della vita e di industriarsi per perseguirli, senza coercizioni esterne, e col solo vincolo che questa libertà non debba danneggiare le libertà altrui. Nel liberalismo è quindi l’uomo, e non la collettività (come nel socialismo), la misura di tutte le cose (p.37). Questa concezione del liberalismo è stata teorizzata da Locke e dall’illuminismo anglosassone e prima ancora dal filosofo greco Protagora. A tutelare queste libertà deve esserci la legge (rule of law), che deve limitare qualsiasi forma di arbitrio da parte di autorità esterne, siano esse di stampo religioso o politico. Più in là si è spinto il liberalismo di stampo illuministico francese, razionalista e costruttivista, che si è interrogato soprattutto sulla natura delle istituzioni “giuste”. In queste riflessioni, da Rousseau a Voltaire, si fa strada l’idea di democrazia: gli individui (liberi, razionali e uguali) fondano la società politica attraverso un patto (contratto sociale) che prevede che la volontà della maggioranza prevalga nelle decisioni politiche. Affinché però questa volontà generale non sfoci nel dispotismo, occorre una divisione dei poteri (esecutivo, legislativo, giudiziario) tra diversi organi dello Stato così come teorizzato da Montesquieu, e la tutela effettiva delle minoranze, così come sostenuto da J.S.Mill, A.Tocqueville, K.R. Popper.

Sul piano storico, le idee liberali si diffondono nel XVIII e nel XIX secolo e conducono agli Statuti, alle Carte dei Diritti, alle Costituzioni, che annullano l’origine divina del potere del Sovrano, conferendo maggiori poteri al Parlamento (Magna Charta, Bill of Rights, etc). Parlamenti che, ancora fino allo scoppio della prima guerra mondiale sono però espressione di una élite intellettuale ed economica (ne sono esclusi i ceti popolari e le donne). Il liberalismo diventa democratico quando i ceti subalterni conquistano la possibilità eleggere i propri rappresentanti in Parlamento, negli anni Venti del Novecento. E’ durante questa fase storica che scoppia la questione sociale, al quale l’ideologia bolscevica, fascista e nazista cercano di dare risposte in senso autoritario, mentre i liberali rimangono muti e paralizzati, perdendo consenso. È così che dagli anni Trenta – complice la crisi del ‘29 – muta la concezione liberale dell’eguaglianza. Se prima questa era concepita come eguaglianza “formale” – tutti i cittadini hanno gli stessi diritti/doveri davanti alla legge senza distinzioni di sesso, età, censo – da allora si incomincia a far strada l’idea di eguaglianza come giustizia sociale: se un cittadino non dispone di alcuni beni di base (alimentazione, casa, istruzione, salute) e del lavoro – i diritti sociali – non può fruire pienamente dei diritti civili (libertà espressione, parola, fede) né di quelli politici (di voto).  In altre parole, seguendo la celebre dicotomia di I.Berlin tra “libertà negativa”( come assenza di coercizioni esterne)  e “libertà positiva” (come partecipazione effettiva alla vita politica e sociale), l’agenda politica dei liberali si concentra ora sulla promozione di quest’ultima. I capeggiatori di questa svolta riformista del pensiero liberale furono Franklin Delano Roosevelt negli USA (con il celebre discorso sulle “4 libertà” e il New Deal), J.M. Keynes e William Beveridge in Gran Bretagna (con la creazione del welfare state e la piena legittimazione, teorica e pratica, dell’intervento dello Stato nell’economia per sostenere la domanda globale di beni e servizi e garantire la piena occupazione). Queste idee gettarono le basi per l’imponente crescita economica dei paesi occidentali nel primo trentennio del dopoguerra (1945-1975). In questa fase (“i Trenta Gloriosi”), Democrazia, Stato e Mercato sembrarono trovare la quadratura del cerchio: il mercato produceva ricchezza, la politica la redistribuiva secondo i dettami degli elettori, in maniera sempre più egualitaria. Un equilibrio precario, rotto, secondo la tesi (assai discutibile) dell’autore, che qui si rifà alla scuola di pensiero della Public Choice di J.Buchanan – dall’eccesso di democrazia: “la frontiera della giustizia sociale si è spostata sempre più in avanti al crescere delle pretese dei cittadini elettori che l’evoluzione democratica assevera, incrociandosi con l’interesse dei politici a soddisfare per ottenerne il voto. Questa coincidenza di istanze genera una situazione in cui le istanze individuali soggiacciono a quelle collettive e lo stato minimo diviene massimo, che è la condizione in cui gli individui vivono soprattutto nei paesi avanzati dove la giustizia sociale è diventata il perno attorno al quale ruota l’organizzazione statale e ha finito con l’assorbire la metà del prodotto annuale” (p.112).

Il pensiero liberale, nella visione di Savona, ha quindi ceduto troppo alle istanze sociali e si è quasi confuso con la social-democrazia, portando l’economia a sbattere contro inflazione e crescente indebitamento pubblico, preparando così il terreno a una ripresa in senso conservatore del liberalismo. Questa ideologia, chiamata neo-liberismo – che informa, per esempio, tutto l’impianto di governance dell’Unione Europea – antepone la giustizia commutativa del mercato alla giustizia distributiva della democrazia e mette in cima alla sua scala di valori l’accumulazione di capitale, l’appropriazione privata dei mezzi di produzione, il profitto (p.171). Ma né il mercato né la democrazia, secondo Savona, sono meccanismi perfetti. Il mercato globale, lungi dall’essere libero e concorrenziale come vorrebbero i manuali di teoria economica, è invece dominato da oligopoli e non è in grado di assicurare la piena occupazione e una distribuzione equa delle risorse. La democrazia è invece spesso inquinata da elettori non preparati che si lasciano attrarre da politici imbonitori (media – crazia). Bisognerebbe correggere l’uno con più giustizia e l’altra con più educazione. Servirebbe costruire – questo l’auspicio dell’autore – un nuovo equilibrio fra le istituzioni principali – Stato, mercato, democrazia – che bilanci istanze sociali e individuali, evitando che nessuna di esse sovrasti le altre. Una sfida certo difficile, ma da raccogliere, specie per quei liberali che non vogliono finire schiacciati nella tenaglia costituita da un’élite tecnocratica, autoreferenziale e insensibile alla questione sociale, e da “populismi” arrembanti che offrono risposte spesso inadeguate alle domande di protezione da parte dei ceti più svantaggiati.

Federico Stoppa

https://ilconformistaonline.wordpress.com/2018/07/13/alla-ricerca-di-un-nuovo-equilibrio-tra-stato-mercato-e-democrazia/

sociologia

Pareto e le élites

Siamo in tempi di rivolta contro le élites. La Brexit guidata da Boris Johnson e Nigel Farage in Gran Bretagna, la vittoria di Donald Trump negli Usa e la sua politica economica e internazionale, quelle di Viktor Orban in Ungheria, Sebastian Kurz e Heinz Christian Strache in Austria, Andrej Duda in Polonia, Matteo Salvini e Luigi Di Maio in Italia, sono tutte tappe di questo processo che sta cambiando la fisionomia politica del mondo occidentale. Non è certo la prima volta che accade: “la storia è il cimitero delle élites” scriveva cent’anni fa il maggiore specialista della questione, il sociologo Vilfredo Pareto. E la sociologia della politica è l’anatomo patologo che studia le cause della loro morte. Quali sono le cause della (almeno apparente) fine delle élites recentemente affossate? E che lezioni ne possono trarre i nuovi vincitori? A leggere gli appunti di Pareto, tra i quali mi aggirai in gioventù a Losanna, la ragione principale di queste disfatte è sempre il rifiuto di cooptare tra le proprie file gente nuova, che voglia davvero rigenerare la classe dirigente. La battuta di Renzi sui padri che “hanno mangiato, ma poi si sono alzati senza pagare il conto” non era male, c’era del vero. Peccato che poi al tavolo si siano seduti i figli di quei poco onorevoli padri, ed abbiano fatto lo stesso, mentre il popolo si era ormai stufato di assistere alla sequenza dei banchettanti strettamente imparentati. In generale, comunque, un’élite va al cimitero quando «gli interessi materiali hanno preso il sopravvento» sugli slanci umani e ideali. Come spiegava appunto Pareto.

Giuseppe Prezzolini fondatore de La voce, altro “enfant terrible” della scena politica italiana, gli dava manforte nell’articolo «L’aristocrazia dei briganti»: «siamo con Pareto nel disprezzo “per tutta quella parte di classe dominatrice paurosa, imbelle, atrofizzata per l’inerzia… suicida di paura”». Ecco: l’inerzia per paura, rimane da allora (alla vigilia del fascismo) una delle principali caratteristiche delle élites malate, destinate ad essere sostituite da quelle più fresche e dinamiche. Anche perché più motivate dal punto di vista ideale, che le vecchie élites non considerano affatto. La prevalenza di interessi materiali produce infatti in esse un appesantimento, un’intossicazione nelle motivazioni (che Pareto chiama: “residui”), provocando una sorta di sclerosi, un rallentamento nel ricambio e nel movimento. Mentre la presenza di ideali e di attenzione agli interessi collettivi fornisce ai nuovi dirigenti il coraggio di sviluppare e usare la forza, con una determinazione di cui le vecchie élites impaurite non sono più capaci. Iniziative come quella di Matteo Salvini di chiudere i porti alle navi e ai trafficanti di esseri umani, o di Giuseppe Conte che rifiuta di votare il documento Cee nella sua interezza, costringendo gli altri Stati a discuterlo punto per punto, entrando nel merito, sono iniziative forti, impossibili da assumere se dietro non ci sono obiettivi sentiti, che vanno al di là degli interessi individuali. Sono cose possibili solo a chi ha qualità del tipo umano dei “leoni”, che Pareto contrappone a quello delle “volpi”; utilizzando queste categorie già illustrate da Nicolò Machiavelli, capostipite della teoria realista della scienza politica in età moderna (cui anche il sociologo italo-francese aderisce). Il principe dovrebbe comunque avere entrambe le qualità: “Bisogna essere volpe per conoscere ed evitare i lacci, e leone per spaventare i lupi “. Per Pareto, però, i leoni sono i politici che danno una forte importanza agli equilibri che garantiscono l’indispensabile continuazione della società (umana e animale), mentre le volpi astutamente giocano tra le diverse combinazioni possibili, spesso per il proprio interesse personale. I leoni sono i difensori della sicurezza di tutti i cittadini, mentre le abili e veloci volpi corrispondono secondo Pareto agli speculatori, che si diffondono nelle civiltà giunte all’apice della ricchezza, ma dirette verso sicura decadenza appunto per la scarsa attenzione al benessere e sicurezza collettiva. Le volpi-speculatori erano visti già da Pareto (che li chiamava i “virtuisti”) come protagonisti di tempi di decadenza, specializzati nell’agitare ideali umanitari o egualitari pur di fare quattrini. Cent’anni dopo quei “virtuisti”, furbi sfruttatori di sbandierate “virtù” di cui parla Pareto, abbiamo George Soros, il più grande speculatore della nostra epoca, vecchia e astutissima volpe della finanza internazionale, capace di costringere (ad esempio) in un colpo solo Italia e Inghilterra a svalutare lira e sterlina. Da anni Soros, oltre a speculare contro i diversi interessi nazionali, si batte per la libertà di immigrazione e assieme dei diversi “diritti”, scegliendoli accuratamente tra quelli più destabilizzanti per le culture tradizionali dei diversi paesi. Tanto che Orban ha fatto una legge apposta per impedire alle sue Fondazioni di operare in Ungheria: un caso di studio nella contrapposizione tra élites finanziarie internazionali e interessi di comunità e popoli locali. La lotta serrata tra élites e popoli non è insomma un’astratta elucubrazione, ma un fenomeno storico ricorrente, che spiega precisi fatti della realtà (come fa Pareto, studioso realista). Dalla rivoluzione francese in poi, comunque, le élites furono sempre più spesso non realiste ma “progressiste”, illuministe: convinte dell’inarrestabile progresso della storia insieme a quello della tecnica. Vi appartiene, ad esempio Francis Fukuyama, il professore di Harvard (molto discusso nella sua stessa università) che dopo il crollo del comunismo scrive: La fine della storia. Ormai -sostiene- non ci sono più ragioni di conflitto: finalmente finite le religioni, le ideologie, le credenze irrazionali. Eravamo (quasi) in un paradiso; naturalmente capitalista.

Gli rispose il suo vecchio prof. Samuel Huntington con lo Scontro di civiltà e il nuovo ordine mondiale facendo con realismo notare che dopo la fine dell’URSS in realtà riappaiono le vecchie divisioni e antagonismi tra le antiche culture precedenti a Carlo Marx: Occidentale, Cristiana orientale (ortodossa), Latino-americana, Islamica, Indù, Cinese, Giapponese, Buddista, Africana. Del resto, già in quegli anni diventava visibile la fine della secolarizzazione (morte di Dio e delle credenze religiose), e il riemergere delle preesistenti religioni, in realtà mai morte. Progressiste per interesse, più che per l’umanitarismo più o meno sbandierato, le élites illuministe vengono poi periodicamente affondate (oltre che dalle proprie debolezze) per la loro lontananza dalla gente comune e dai suoi sentimenti, speranze, fedi. L’élite infatti sostituisce la fede religiosa con quella nel progresso, secondo la quale ciò che è accaduto non si ripresenterà e la storia continuerà la sua ascesa. È l’elegante e pagatissimo Tony Blair che lancia l’appello contro il ritorno di “populismi e dazi identici a quelli degli anni 30”. Ma perché si sorprende? Se un commercio internazionale dove sostanzialmente vige la legge del più forte crea disoccupazione e povertà, qualcuno metterà i dazi! La fame vince seccamente la fede nel progresso. Tornano così antiche soluzioni, come appunto il populismo che del resto Cristopher Lasch (il grande sociologo del narcisismo) considera una “tradizione del pensiero democratico”. Non una parola da pronunciare con disprezzo, o uno stigma con cui bollare un avversario che non si riesce a confutare, ma una tradizione della democrazia.
Quando poi il “progresso” rivela la sua inconsistenza, l’élite ricopre tutto con una zuccherosa glassa che nasconda la verità. Ancora Lasch (La ribellione delle élite): “Le parole-chiave correnti: accoglienza, promozione, abilitazione, esprimono la malinconica speranza che le divisioni profonde che minano la società possano essere colmate da un linguaggio purgato e emendato”. Ma il politically correct non ha mai salvato nessuno. Ha invece perso molti: anche queste élites.

Claudio Risé

https://www.ariannaeditrice.it/articolo.php?id_articolo=60744

filosofia

La quarta teoria politica

Spigolature da La Quarta Teoria Politica di Aleksandr Dugin, Novaeuropa edizioni.

“Dopo aver sconfitto i suoi rivali, il liberalismo ha (re)imposto un monopolio nel pensiero ideologico: è divenuto l’unica ideologia, che non consente nemmeno l’esistenza di alcuna ideologia rivale. Si potrebbe dire che è passato da un programma a un sistema operativo comune. Si noti che, quando andiamo in un negozio a comprare un computer, il più delle volte non diciamo “Vorrei un computer con Microsoft”, ma semplicemente “Vorrei un computer”, e ci viene venduto un computer con un sistema operativo Microsoft. Lo stesso accade con il liberalismo: ci viene impiantato come qualcosa di standard, che sarebbe assurdo e inutile contestare.
(…) Il liberalismo non è più liberalismo ma sottofondo, tacito accordo, consenso. Ciò corrisponde alla transizione dall’epoca della modernità a quella postmoderna. Nella postmodernità il liberalismo, mantenendo e perfino aumentando la sua influenza, sempre più raramente rappresenta una filosofia politica liberalmente scelta e compresa, diviene inconscio, istintivo e non del tutto consapevole. Questo liberalismo istintivo ha la pretesa di trasformarsi nella “matrice” universale, non-conscia, della contemporaneità…”.
[Pagg. 209-210]

“Dobbiamo mettere fine alle vecchie ideologie e teorie politiche. Se abbiamo davvero rifiutato il marxismo e il fascismo, quello che rimane è di mettere da parte definitivamente il liberalismo, che è un’ideologia altrettanto datata, crudele e misantropa. Il termine “liberalismo” dovrebbe essere equiparato a “fascismo” e “comunismo”. Il liberalismo è responsabile di crimini storici tanto quanto il fascismo (Auschwitz) e il comunismo (i gulag); è responsabile della schiavitù e della distruzione dei nativi americani negli USA, per Hiroshima e Nagasaki, per le aggressioni in Serbia, Iraq e Afghanistan, per la devastazione e lo sfruttamento di milioni di persone sul pianeta, e per le menzogne ignobili e ciniche che imbellettano queste verità storiche.”
[Pag. 81]

“Tutti coloro che condividono un’analisi negativa della globalizzazione, dell’occidentalizzazione e della postmodernizzazione dovrebbero unire i loro sforzi per creare una nuova strategia di resistenza contro un male che è onnipresente.”
[Pag. 289]

“L’unica cosa su cui è opportuno insistere nel tracciare un simile sentiero di cooperazione è la dismissione dei pregiudizi anticomunisti e antifascisti. Questi pregiudizi sono gli strumenti per mezzo dei quali liberali e globalisti tengono divisi i loro nemici. Perciò dobbiamo ripudiare con forza tanto l’anticomunismo quanto l’antifascismo. Entrambi sono strumenti controrivoluzionari nelle mani dell’élite globale liberale. Allo stesso tempo, dobbiamo opporci a ogni genere di conflitto tra le varie credenze religiose – musulmani contro cristiani, ebrei contro musulmani, musulmani contro indù, e così via. Le guerre e le tensioni interconfessionali fanno il gioco del reame dell’Anticristo, che mira a separare le religioni tradizionali allo scopo di imporre la sua pseudo-religione, la sua parodia escatologica.
Di conseguenza, dobbiamo unire la Destra, la Sinistra e le religioni tradizionali di tutto il mondo in uno sforzo comune contro il nemico comune. La giustizia sociale, la sovranità nazionale e i valori tradizionali sono i tre principi fondamentali della Quarta Teoria Politica. Non è facile riunire sotto un unico stendardo un’alleanza così composita, ma dobbiamo provare se vogliamo sopraffare il nostro nemico.”
[Pag. 292]

La Quarta Teoria Politica e il populismo

filosofia

Filosofi lungo l’Oglio

Nuove tappe per la maratona del pensiero Filosofi lungo l’Oglio diretta dalla filosofa Francesca Nodari e promossa dalla Fondazione Filosofi lungo L’Oglio. Sei nuovi appuntamenti in provincia di Brescia per la tredicesima edizione del Festival, che declina quest’anno il tema del “Condividere” attraverso la voce dei più illustri pensatori contemporanei.

I nuovi e attesi appuntamenti lungo il fiume Oglio inizieranno lunedì 9 luglio da Orzinuovi dove lo stimato Monsignor Vincenzo Paglia parlerà del “Noi” in un incontro sul “crollo del noi”. Un tema di grande attualità che si presta ad essere declinato in molteplici aspetti. L’appuntamento è alle 21.15 in piazza Vittorio Emanuele II.

Si continua il giorno successivo 10 luglio con uno dei maggiori economisti contemporanei Stefano Zamagni per provare a rispondere al quesito: La condivisione in economia, oggi: utopia o ideale storicamente realizzabile? Ad animare con lui il dibattito ci saranno anche Gabriele Archetti Presidente Fondazione Cogeme e Giancarlo Pallavicini, economista e accademico delle scienze della Federazione Russa. L’appuntamento è alle 21.15 a Rovato nella Sala del Pianoforte del Palazzo Municipale.

Sempre martedì 10 sarà inoltre presentato l’ultimo libro di Zamagni “Come e quanto la quarta rivoluzione industriale ci sta “toccando” pubblicato da edizioni Mimesis nella collana Chicchidoro diretta da Francesca Nodari.

Mercoledì 11 Luglio tappa a Villachiara con Umberto Galimberti, tra i più importanti psicanalisti e filosofi italiani, che affronterà l’argomento quanto mai attuale della condivisione fra genitori e figli e fra insegnanti e studenti. L’appuntamento è alle 21:15 all’Azienda le Vittorie.

Giovedì 12 Luglio a Desenzano sul Garda ci sarà l’incontro con Remo Bodei, tra i massimi esperti dell’idealismo classico tedesco, che parlerà della “giustizia distributiva”. L’incontro si svolgerà al Castello di Desenzano alle 21.15.

Il giorno successivo, venerdì 13 Luglio si torna a Villachiara per Condividere la Legalità, serata a cui parteciperanno lo scrittore e politico Nando Dalla Chiesa, il Presidente della Commissione Speciale Carceri Gian Antonio Girelli e il Prefetto di Brescia Annunziato Vardé. L’appuntamento è alle 21.15 all’Azienda le Vittorie. Modererà l’incontro il giornalista e scrittore Tonino Zana.

Chiuderà la penultima settimana della kermesse itinerante l’appuntamento domenicale del 15 Luglio a Orzinuovi con Francesca Rigotti, Presidente della Giuria del Premio Internazionale di Filosofia/Filosofi lungo l’Oglio. Un libro per il presente, nonché docente di dottrine e istituzioni politiche all’università di Lugano, la cui ultima fatica “De senectute” edito da Einaudi, un penetrante e originale libro sulla vecchiaia al femminile, sta riscuotendo un ampio successo. Il suo incontro, dal titolo “Condividere torte, mantelli, conoscenza” si terrà in piazza Vittorio Emanuele II alle ore 21.15.

geopolitica

La sporca guerra contro la Siria

L’economista Tim Anderson, con il saggio “La sporca guerra contro la Siria ( Editore Zambon, 2016 ), prende in analisi il caso siriano. L’introduzione è chiara: ‘’Ancora oggi, molti immaginano il conflitto siriano come una guerra civile, una rivolta popolare o una sorta di scontro confessionale interno. Tali miti rappresentano, sotto molti aspetti, un cospicuo successo per le grandi potenze che hanno condotto una serie di operazioni di cambio-regime (tutte con pretesti fasulli ) nella regione mediorientale negli ultimi quindici anni’’. Anderson inizia col mettere in dubbio queste false convinzioni – rivolta popolare contro il governo baathista? Falso! – facendo una scrupolosa analisi della storia della Siria contemporanea. Il campo da lui prediletto è quello della contestualizzazione storica per poi passare alla critica dei mass media imperiali; l’analisi, nel libro di Anderson, fa carta straccia della propaganda. Islamismo contro baathismo L’imperialismo statunitense ha perseguito l’obiettivo di smembrare la Siria in diversi Stati etnici rompendo l’unità dell’Asse della Resistenza e favorendo i progetti del sion-imperialismo. Quindi, Washington e Tel Aviv mirano alla creazione di uno ‘’Stato fallimentare’’, debole ed indifeso; l’Asse della Resistenza ha mandato all’aria questo progetto configurando un conflitto asimmetrico fra una guerriglia popolare e degli eserciti artificiali composti da mercenari. L’economista Tim Anderson ha ben inquadrato, fin dalle prime pagine, la situazione e l’altissima posta in gioco: ‘’Tale asse comprende Hezbollah nel Libano meridionale e la resistenza palestinese, oltre alla Siria e all’Iran, unici Stati nella regione privi di basi militari Usa. Più recentemente, anche l’Iraq – tuttora traumatizzato dall’invasione, dai massacri e dall’occupazione occidentali – ha iniziato ad allinearsi a tale asse. Anche la Russia ha iniziato a giocare un ruolo importante quale contrappeso. La storia e i precenti recenti dimostrano che né la Russia né l’Iran nutrono ambizioni imperialistiche anche solo paragonabili a quelle di Washington e dei suoi alleati, molti dei quali ( Gran Bretagna, Francia e Turchia ) sono stati in passato signori della guerra coloniali in questa regione. Dal punto di vista dell’<<Asse della Resistenza, la sconfitta della guerra sporca contro la Siria permetterebbe alla regione di iniziare a serrare i ranghi contro le grandi potenze. Il successo della resistenza siriana significherebbe l’inizio per il Nuovo Medio Oriente di Washington’’ ( pag. 14 ) Quindi, da una parte, abbiamo un polo egemonico non imperialistico e, dall’altro lato, un progetto imperiale che vorrebbe colonizzare tre paesi: Siria, Iran e potenzialmente anche la Russia. Non è la prima volta che gli Usa cercano di dominare la regione e per questo motivo l’autore del libro ricostruisce il ruolo dell’islamismo radicale; la sovversione wahhabita rivolta contro gli Stati laici ed indipendenti. Tim Anderson risponde correttamente alla domanda sul perché la Siria si è trovata nel mirino. Il Ba’th siriano, fin dal 1967, ha appoggiato la guerriglia antimperialista palestinese contro Israele. Nel 1980 il ‘’moderato’’ Carter chiedeva un ‘’cambiamento di regime a Damasco’’ e Zbigniew Brzezinski ‘’richiedeva con urgenza uno studio coordinato, che coinvolgesse anche i partner europei e le monarchie arabe, allo scopo di <<individuare possibili regimi alternativi al governo guidato da Hafez Al Assad’’ ( pag. 2 ). I Fratelli Musulmani siriani accettarono di diventare i sicari degli Usa, trovando, dopo l’imperialismo britannico, un nuovo padrone. Alla domanda ‘’Qual è il ruolo dei Fratelli Musulmani e dei Wahabiti nella destabilizzazione di questa regione?’’, Anderson risponde: ‘’I Fratelli Musulmani siriani hanno comandato e armato i gruppi ostili al governo siriano fino alla penetrazione dell’ISIS nella regione, avvenuta nel 2013. I loro principali sponsor erano Qatar, Turchia e altri. I Sauditi, tuttavia, divennero piuttosto invidiosi dell’ascendente dei Fratelli Musulmani, così preferirono finanziare e armare altri gruppi jihadisti, come l’ISIS, da loro creato in Iraq. La maggior parte delle volte i Fratelli Musulmani siriani hanno cooperato con i gruppi a vocazione internazionale di Al-Qaeda, ma altre volte (quando stanno perdendo o sono occupati in guerre territoriali) si scagliano gli uni contro gli altri’’ 1. Il saggio, La sporca guerra contro la Siria, entra nel merito dei fatti storici: “Non fu quindi una coincidenza che i Fratelli Musulmani – da sempre il gruppo di opposizione siriano più organizzato, la cui collaborazione con potenze esterne risaliva agli anni Quaranta – dessero inizio a una serie di sanguinosi attacchi a partire da quel momento, fino a quando la loro ultima insurrezione venne schiacciata a Hama nel 1982. Tale insurrezione era stata sostenuta dagli alleati degli Stati Uniti – l’Arabia Saudita, Saddam Hussein e la Giordania ( Seale 1988: 336-337 ). L’intelligence USA, a quel tempo, osservò che i siriani sono dei pragmatici che non vogliono un governo dei Fratelli Musulmani ( DIA 1982: vii ). Tuttavia, gli analisti USA utilizzarono poco dopo la repressione dei Fratelli Musulmani a Hama per dimostrare l’autentica instaurazione di uno Stato totalitario in Siria ( Wikas 2007: vii ). Si trattava di un’utile finzione.’’ ( pag. 21 ) Dal 1980 ad oggi i Fratelli Musulmani sono stati una pedina fondamentale della politica USA ed è per questo motivo che Trump sembra non poterne fare a meno. Anderson ricostruisce il rapporto imperialismo USA/Fratelli Musulmani in modo inoppugnabile arrivando alla conclusione che fra le amministrazioni Usa: ‘’Sembra che vi sia maggiore continuità, anche se ciò non è ancora chiaro. Nel 2016 Trump ventilò la possibilità di un ritiro dalla guerra in Siria, ma il suo attacco missilistico ad aprile mostra che evidentemente intese di dover attaccare la regione per dimostrare la propria credibilità all’interno dei confini americani. Allo stesso tempo, truppe americane hanno apertamente invaso lo Stato siriano, utilizzando come loro intermediari due gruppi di estrazione curda, l’YPG e l’SDF’’. Come sempre questo economista è puntuale e – anche sulla questione curda – non sbaglia. Dopo anni di rivolte settarie, a metà anni ’80, il presidente Hafez Al Assad ‘’aveva spezzato le reni’’ alla rivolta confessionale dei Fratelli Musulmani i quali miravano ad imporre ‘’uno Stato islamico-salafita’’. Per questa ragione i fondamentalisti sunniti, nel 1982, si sentirono di dare inizio a una sollevazione nella loro roccaforte: Hama. L’autore di questa ricerca ritiene che ‘’si trattò di una guerra civile fomentata dall’estero, e nell’esercito si verificarono alcune defezioni’’ ( pag. 48 ). Hafez al Assad spiegò come la Siria dovette fronteggiare un complotto straniero e, con voce autorevole, lo scrittore britannico Patrick Seale osservò che queste accuse ‘’non (erano) paranoiche, dal momento che furono requisite numerose armi statunitensi e che il sostegno occidentale era giunto attraverso diversi alleati degli Stati Uniti: re Hussayn di Giordania, le milizie cristiane libanesi ( i Guardiani dei Cedri fiancheggiatori degli israeliani ) e l’iracheno Saddam Hussein ( Seale 1988: 336-337 )’’ ( pag. 49 ). Quello che è successo nel 2011 è una sorta di prolungamento della rivolta wahhabita di Hama, le uniche differenze sono rappresentate dalla militarizzazione dei media ed un maggiore appoggio delle potenze imperialistiche occidentali. Le operazioni ‘’false flags’’, rispetto al 1982, sono una novità storica. Risponde Anderson: ‘’False flag significa un atto di guerra o un crimine di cui viene deliberatamente incolpata la fazione avversa. Il conflitto siriano è pieno di atti di questo genere, come spiego nel mio libro “La sporca guerra contro la Siria”. In due capitoli documento i false flags relativi al massacro del villaggio di Houla nel maggio 2012 e l’incidente delle armi chimiche nella Ghouta orientale nell’agosto del 2013. L’obiettivo di fondo è il tentativo di nascondere la violazione della legge internazionale implicita nell’aggressione contro la Siria e di diffondere un messaggio relativo a ‘circostanze straordinarie’ che ne giustifichi la violazione della sovranità’’. Le documentazioni raccolte nel testo sono inoppugnabili, chiunque voglia conoscere la storia del medioriente e del nazionalismo progressista arabo deve sapersi confrontare col libro che stiamo presentando

Fonte: EastWest